Come altri giganti del Novecento teatrale, Pinter, oggi, è forse più che mai necessario. A trent’anni esatti di distanza, torna a leggerlo, a ripensarlo, a recitarlo – e questa volta anche a dirigerlo – Gigi Borruso che dal 6 al 15 dicembre al Teatro Ditirammu propone «Victoria Station» e «Il bicchiere della staffa» affiancato in scena da Dario Frasca, Alessandra Guagliardito e Lucrezia Orlando, scene e costumi di Valentina Console, luci di Vittorio Di Matteo.
Borruso gioca a carte scoperte. «Primo motivo: sono i due testi che hanno segnato il primo momento importante del mio percorso d’attore, trent’anni fa, poco dopo il diploma e gli esordi, diretto da Michele Perriera che è stato il mio maestro. Secondo motivo: avevo l’esigenza di tornare a un teatro che si fonda su una scrittura forte, strutturata, di spessore ma anche di misurarmi nuovamente, e di farlo fare ai giovani attori che ho accanto, con certi canoni che variano dalla commedia alla tragedia, dalla leggerezza alla cupezza, insomma confrontarsi con due testi che sono lì, sui fogli, consegnati al palcoscenico parola su parola».
Pinter, poi. «Sì, il fascino del suo teatro che fa chiarezza creando equivoci, che scoperchia l’ambiguità nella normalità quotidiana, che effonde tensione in un contesto d’apparente leggerezza. Sia in “Victoria Station”, nel dialogo surreale tra il tassista e il suo collega della centrale, che nel “Bicchiere della staffa”, molto più tenebroso, quasi truce nella stretta sorveglianza, nella minaccia che incombono su un nucleo familiare».
Cosa resta di quel primo allestimento di cui è stato soltanto interprete è presto spiegato. «La mia regia è meno espressionista di quella di Perriera trent’anni fa, più “distesa” direi. Ma la tensione resta sempre alta, il filo rosso che unisce i due testi è sempre quello del “controllo” sull’individuo, il rapporto destabilizzante tra controllore e controllato, la perdita dell’identità, delle proprie coordinate. Insomma, credo che questi due testi ancora “ci” raccontino, ci parlino del nostro oggi, siano perfettamente assimilabili al clima che stiamo vivendo, all’aria che stiamo respirando, forse oggi ancor più che ieri, con il dominio prepotente dei “social”, ad esempio. Anche se ho evitato accuratamente di dare connotazioni sociali, ideologiche o politiche allo spettacolo».
Il ritorno a un classico, a un teatro “di scrittura” segna forse una crisi della drammaturgia contemporanea che spesso nasce sul palcoscenico stesso, da esperienze di laboratorio collettivo? «No, c’è spazio per qualsiasi forma di scrittura scenica ma avevo voglia – e volevo anche farlo provare ad attori molto più giovani di me – di misurarmi con la complessità della pagina scritta, di leggere e rileggere una battuta che oggi per alcuni colleghi delle nuove generazioni è quasi pratica desueta, di chiedersi “ma perché mai qui l’autore ha messo questa virgola?, perché qui vuole questa pausa, perché qui ha aggiunto questa didascalia?”, di attraversare un personaggio attraverso le sue mille sfaccettature. Insomma, prestare occhi e orecchie al testo non significa affatto perdere un grammo della propria creatività».