Un giochino costato 91 milioni e una verità che, a dodici anni di distanza, non viene a galla. Oggi ci prova Claudio Fava, presidente della commissione regionale antimafia, che per le 11 ha fissato l’audizione dell’assessore all’Economia Gaetano Armao. Si cercherà di spulciare a fondo la storia e i dettagli del censimento commissionato dalla Regione a Sicilia Patrimonio Immobiliare (“una rapina”, secondo Fava), che nessuno ha mai visto. Armao ha un ruolo centrale in questa vicenda. Nelle ultime settimane, il vice-governatore si è prodigato per far realizzare (ma i grillini gliel’hanno impedito) una “ricognizione straordinaria della situazione patrimoniale dell’ente”. Nel 2010, da assessore all’Economia di Raffaele Lombardo, stoppò invece i pagamenti a Spi senza alcuna comunicazione alle autorità competenti e senza sporgere formale denuncia; determinando, in questo modo, un contenzioso (si parla di 49 milioni) con Ezio Bigotti, l’avventuriero di Pinerolo e amministratore delegato di Spi, di cui in passato era stato consulente. L’audizione di oggi potrebbe svelare la natura del contenzioso, chi sono gli arbitri e qual è la linea della Regione, dato che sin qui né gli organi politici, tanto meno quelli istituzionali, hanno fornito risposte.
Presidente Fava, quali sono i buchi neri di questa vicenda?
“Che un censimento doveva essere fatto e non è stato fatto; che è stato lautamente pagato a chi ha incassato i soldi senza aver prodotto risultati per l’impegno che aveva assunto. E, per un altro verso, che c’è stata una smobilitazione di una parte del patrimonio, svenduto e poi immediatamente riaffittato a un prezzo più alto. Vorremmo capire chi è il responsabile di queste vicende. Se continuiamo ad aspettare che siano le Procure della Repubblica o la Corte dei Conti a dirci dove, come e quando si è sbagliato, la politica sarà sempre destinata ad arrivare dopo”.
Per una volta potete arrivare prima.
“E per questo avvieremo un ragionamento su una spesa che sembra incredibile. Partiremo dall’assessore Armao e continueremo con altre audizioni. La storia del censimento si trascina dal governo Cuffaro in poi. E’ una di quelle storie che ci raccontano come tutti continuino a stupirsi, ma nessuno, pur avendo una funzione decisionale, di controllo e di governo, sia stato nelle condizioni di fare qualcosa. Siamo di fronte a una clamorosa rapina da un centinaio di milioni, per un censimento mai fatto e per impinguare i forzieri nei paradisi fiscali a beneficio di alcuni facitori d’affari”.
Restiamo sulla questione morale. Prima dell’estate ha sentito i vari Micciché, Pierobon, Turano, Cordaro sulla vicenda del faccendiere Paolo Arata e sullo scandalo dell’eolico. Al termine di quelle audizioni si disse sorpreso dai tanti “non ricordo”. Che sensazione le è rimasta addosso?
“La sensazione di una politica che ha il vizio di stupirsi improvvisamente, elegantemente, come Alice che si sveglia e scopre che dall’altra parte dello specchio c’è un mondo a lei sconosciuto. Che Arata, rappresentando Nicastri, fosse un’insidia concreta per le funzioni di governo della Regione siciliana, non bisognava scoprirlo dalla Procura della Repubblica di Palermo. Occorreva un minimo di buonsenso, e di senso delle cose accadute in Sicilia, per sapere che chi parlava a nome di Nicastri andava garbatamente messo alla porta. Chi avrebbe potuto e dovuto metterlo alla porta, invece, ha ritenuto di non farlo”.
Cosa suggerisce questo atteggiamento?
“Che la politica, spesso, preferisce prudentemente stare un passo indietro rispetto alle evidenze giudiziarie. Se non accade nulla nelle Procure, è possibile continuare a condurre tutti i giri di valzer che ci vengono proposti. Appena suona un campanello d’allarme, invece, recuperiamo la misura delle cose. C’è un senso di responsabilità, ma anche di finto stupore”.
Il nuovo Ministro dell’Interno è l’ex prefetto di Milano Luciana Lamorgese. Nel 2014, quando Antonello Montante venne nominato dal ministro Alfano a capo dell’agenzia nazionale dei beni confiscati alla mafia, Lamorgese era a capo del suo gabinetto. Trova inopportuna la sua nomina al Viminale?
“Gabrielli è stato il capo della polizia con Matteo Salvini Ministro dell’Interno. Non per questo lo considero responsabile degli eccessi, delle miserie, delle latitanze sul piano istituzionale che vanno imputate al suo Ministro. Credo che la scelta di Alfano sia stata squisitamente politica, dentro un ragionamento in cui occorreva consolidare quella “compagnia delle opere”. Non credo che il suo capo di gabinetto abbia avuto voce in capitolo. E’ stato Alfano a ritenere di dover premiare Montante e la cordata di Montante attraverso una nomina assolutamente inopportuna, forzata e violenta sul piano istituzionale. Il signore in questione, indagato da 7 mesi per concorso in associazione mafiosa, ha occupato uno dei posti maggiore responsabilità nella lotta alla mafia. E’ una nomina che Alfano ha continuato a difendere, dicendo di non essere stato informato e ritenendo che era naturale in quel momento che a Montante toccassero i galloni di massimo rappresentante dell’antimafia in Italia. Per cui mi sembra giusto che le responsabilità ricadano interamente sulle spalle dell’ex ministro”.
Qual è l’immagine che le è rimasta maggiormente impressa di questa estate italiana? Di una crisi celebrata al Papeete ancor prima che in Parlamento?
“A me ha dato la sensazione di una partita di poker, più che di una trattativa politica. Dove ciascuno bluffava sulle proprie carte e sbirciava quelle dell’avversario, per cui alla fine ti ritrovi con coalizioni costruite e demolite fra partner che si mandano segnali di amore e di odio. Mi ha dato la sensazione di un grande azzardo, al di là del fatto che la soluzione ha una sua legittimità, anche parlamentare”.
Esiste una forma di depravazione politica, di scadimento del costume politico? O i comizi improvvisati in riva al mare, i mojito, i giri con le moto d’acqua della polizia, sono soltanto il segno dei tempi che avanzano?
“Forse c’è una perdita di senso del pudore su alcune cose che un tempo avrebbero preoccupato e indignato. Martedì piazza Montecitorio si è riempita di folle festanti per Salvini e la Meloni e arrabbiate per un parlamento che dava la fiducia a un’altra maggioranza, a un altro governo. Ed erano piene di saluti fascisti, mani tese e slogan beceri. Una volta avrebbero procurato vergogna e imbarazzo negli organizzatori. Adesso fa parte del panorama, del senso complessivo di un decoro scaduto, dove il saluto fascista è un gadget e uno dei segni di questo tempo. E la politica alla fine è l’espressione più compiuta, più autentica, più risolta e più malinconica”.
L’alleanza fra Pd e Cinque Stelle non sembra poggiare su basi solide. Durerà?
“Non penso che fra 5 Stelle e Lega ci fosse una maggiore convergenza. Era un accordo di potere dove ciascuno si è preso una parte di leadership e di gestione. Non credo che quella maggioranza, in termini di affinità e di empatia, anche umana, avesse qualcosa in più di questa maggioranza. Che ha elementi di debolezza e allo stesso tempo di necessità. Credo durerà fino a fine legislatura perché c’è un fatto diverso rispetto a prima: l’assenza di Salvini è l’assenza di un provocatore seriale, di un uomo abituato ad alzare i toni sapendo che ogni ottava in più corrisponde a un pacchetto di consensi guadagnati. Il Pd rispetto a questo è più scafato, più antico, più tradizionale, anche nelle dinamiche e nei messaggi della politica. Questa alleanza sarà meno effervescente della precedente”.
Una presenza così vasta di ministri meridionali garantisce alla Sicilia e al Mezzogiorno di ricevere le giuste attenzioni dal nuovo governo giallorosso?
“Penso di no. L’idea che i ministri meridionali siano garanzia per le ragioni e i diritti del Sud mi pare una lettura antica e provinciale della politica, dove ciascuno, invece di rappresentare da legislatore o da governante le ragioni di un Paese, rappresenta quelle del proprio territorio elettorale. Questo è errore culturale profondo che ci trasciniamo dal dopoguerra. Le ragioni del Mezzogiorno sono fra le emergenze sociali del Paese e devono venire al primo posto per chi vive a Varese come a Ragusa. Altrimenti c’è un errore di prospettiva. Non mi dà maggiore sicurezza che ci siano ministri meridionali, mi darebbe maggiore sicurezza la qualità complessiva delle persone e della politica che esse esprimono”.
I riflessi della nuova alleanza romana si sono già visti martedì all’Ars. Il blocco formato da Pd e Cinque Stelle (molti ci hanno messo dentro anche lei e D’Agostino di Sicilia Futura) metterà i bastoni fra le ruote al governo e alla maggioranza. E’ cambiato qualcosa rispetto a prima?
“Io non ci vedo nulla di nuovo. L’opposizione esisteva con un governo gialloverde a Roma e continua a esistere con una maggioranza diversa. Il punto non è la consistenza numerica dell’opposizione, ma il fatto che finora sia stata una somma di opposizioni, di comportamenti slegati, molto autoreferenziali, identitari, affidati a un’ansia di vanità d’aula. E invece – non per emulare le intenzioni romane, ma per dare più senso al nostro operato – varrebbe la pena costruire l’opposizione sul merito di alcune vertenze politiche che andrebbero insediate nel dibattito d’aula e che finora sono state abbastanza marginali. Il salto di qualità non è nei numeri, ma nel capire se si passa da un’opposizione fatta di “uno più uno più uno” a una vertenza di senso politico più nobile, autentico, efficace e propositivo, che intervenga non soltanto per far mancare il numero legale, ma sul merito delle questioni che sono sul tappeto della politica”.
Quali sono le più importanti?
“Ecco, il problema è che il luogo in cui questa vertenza dovrebbe animarsi ed esistere è l’aula di Palazzo dei Normanni, che però – spesso – è malinconicamente priva di funzione politica. Questa maggioranza e questo governo non riescono a portare e offrire strumenti di discussione. Sono talmente terrorizzati dai contorni slabbrati della propria ombra, che hanno preferito per due anni fingere di essere maggioranza e continuare a non governare. Ora dovrebbe arrivare una riforma sulla governance dei rifiuti, un’altra legge che andrebbe fatta a metà legislatura, e non alla fine, è la riforma del sistema elettorale. Ci sono una serie di punti e spunti su cui vorremmo verificare non se funziona la formula romana a Palermo, ma se questa opposizione riesce a trovare un suo progetto condiviso e non soltanto la capacità di presidiare l’aula”.