Il primo risultato raggiunto dai due Matteo – Salvini con la dichiarazione di crisi, Renzi con l’ipotesi di tirar su un governo istituzionale – è stato, almeno in Sicilia, l’erosione di un progetto ancora in fieri: ossia la creazione di un campo moderato su cui si stava lavorando sottotraccia (e un po’ a singhiozzo in verità) per arginare la deriva populista. Quello che mesi fa aveva ipotizzato Gianfranco Miccichè, pur specificando che per Pd e Forza Italia non poteva trattarsi di “simboli sommabili come una forma algebrica”, in risposta alle teorie di Luca Sammartino. Ossia mr. Preferenze (32mila alle ultime Regionali), il più avveniristico dei democratici, un’isola nell’isola. Quello che all’indomani del commissariamento del partito in Sicilia, è esploso contro l’inconcludenza di Nicola Zingaretti, reo di provare a ricostruire il Pd “con le solite persone, ormai scadute politicamente, usando i metodi della vecchia ditta”.
E di “ditta” parlava anche Matteo Renzi, all’indomani della cacciata di Davide Faraone. Solo che a un certo punto della storia, pur di fare fuori Salvini, l’ex premier ha rilanciato il compromesso storico col Movimento 5 Stelle e riaperto una questione fondante per il futuro del Paese: elezioni sì o elezioni no. Oggi il borsino tende verso la seconda ipotesi. Proprio perché il dialogo ben avviato fra “dem” e grillini, la necessità di salvaguardare i conti, di scrivere la Manovra, di non far aumentare l’Iva e di approvare alcune riforme come il taglio dei parlamentari, imporrebbero lo stop ai bollenti spiriti della Lega. Senza considerare che l’innesco Renzi-Di Maio potrebbe – dichiarazioni del passato alla mano – essere persino più deleterio dell’esperimento gialloverde. Una bomba pronta a esplodere.
Poco importa. La doppia “P” (potere-poltrona) si imporrà anche stavolta. D’altronde, basta la maggioranza. Anche se in Sicilia, le determinazioni del presidente della Repubblica, modificherebbero il quadro politico e, magari, il corso della storia. In caso di “elezioni subito”, pur non essendo dotati della sfera di cristallo, uscirebbe più che rafforzato il centrodestra. Quello originario. Ammesso che Salvini accolga la proposta di Berlusconi ed eviti il listone unico – Forza Italia ci tiene all’identità, soprattutto al Sud – la coalizione potrebbe aggiudicarsi i 28 collegi uninominali (o la maggior parte di essi), scrollandosi di dosso il Movimento 5 Stelle che ha fatto della Sicilia il suo feudo prediletto.
Sarebbe, e questa è un’anomalia, una maggioranza un po’ diversa da quella che tiene in piedi (si fa per dire) il governo Musumeci. Ripulita dai cespugli di centro – oggi come oggi appare impossibile che uno come Saverio Romano, ad esempio, si allei con Salvini – e depotenziando Diventerà Bellissima, che ha una sola chance di rimanere in corsa, e comunque non vuole perderla: fare squadra con un’altra formazione di centrodestra. Una piccola federazione. Anche se ai piani alti, il diktat filtra da Arcore, vorrebbero imporre la tagliola sul nome di Giovanni Toti, l’interlocutore privilegiato di Musumeci e il fondatore del movimento “Cambiamo” (i separatisti di Forza Italia). Nelle cui liste potrebbe finire qualche nome caro al presidente della Regione Sicilia. “Ma noi saremo nella coalizione di centro-destra” ha garantito Musumeci, dopo aver parlato al telefono con il Cav.
In caso di “elezioni subito” (e di sconfitta), invece, il Movimento 5 Stelle potrebbe ridursi a seconda forza dell’Isola, facendo venir meno, ulteriormente, l’influenza che Cancelleri e soci hanno avuto fin qui sul governo Conte. In buona sostanza, i grillini siciliani conterebbero il giusto. Quasi niente. Nel Pd, dove è ancora poco chiaro chi detta la linea fra Renzi e Zingaretti, ci rimetterebbero un po’ tutti. L’unica consolazione, qualora Zingaretti puntasse sul voto subito, isolando i renziani, è che i seguaci del governatore del Lazio – da Cracolici a Lupo – riprenderebbero in mano le sorti del partito, mettendo in minoranza (una volta per tutte) le teorie renziste, renziane e democristiane. In sostanza, l’operazione è cominciata con l’arrivo del commissario Losacco, l’uomo di Franceschini che ha preso il posto di Faraone e avrà l’onere di guidare la rinascita per vie congressuali. Sancendo una probabile scissione.
Ma, come detto, al momento la lancetta punta verso l’area del “no voto”. La formazione di un esecutivo di scopo o di legislatura, con il Movimento 5 Stelle al centro di tutto, confermerebbe la posizione agiata dei grillini. Che agirebbero come hanno fatto finora: interlocuzione fitta coi Ministeri, governo amico, provvedimenti pochi. Il vero vincitore, però, sarebbe Renzi. Terminati i pop corn, grazie ai gruppi parlamentari che ancora gli sorridono, l’ex premier tornerebbe a giocare una partita da protagonista: sia al governo che all’interno del partito. Faraone, in questo caso, potrebbe respirare e riprendere la tessera. E i pronostici essere sovvertiti, anche in vista del prossimo congresso regionale. Una visione di questo tipo non rafforzerebbe l’unità, forse il correntismo, sicuramente il leader. Nel Pd siciliano, probabilmente, continuerebbero ad esistere una gran varietà di fazioni. Ma vuoi mettere l’ebbrezza di una nuova gita a sorpresa a Palazzo Chigi?
Avrebbe di che ridire Musumeci, che infatti ha già invocato il ritorno alle urne: “Niente voto, dice Grillo. Tutti i voti rastrellati al Sud destinati a un governo minoritario nel Paese e con il Pd? Interesse nazionale è avere un governo legittimato dal popolo e omogeneo nel programma. Basta pastrocchi”. Il governatore della Regione non gode di ottime referenze tra i pentastellati al governo. Ha definito Toninelli – il ministro che detiene le Infrastrutture e quindi, piaccia o meno, determinante per lo sviluppo dell’Isola – una “calamità naturale”. Così, per dire. E neanche a sinistra, per ovvi motivi di appartenenza, avrà una sponda facile. Meglio affidarsi a ciò che gli resta di patriottico: “Se non si mettono in campo strumenti per consentire al Mezzogiorno di ripartire, la stagnazione economica che colpisce il Meridione continuerà a rodere come un tarlo l’intera società italiana” ha detto Musumeci. Un deterioramento dei rapporti, senza la mediazione ombra di Salvini, rischia di contagiare anche il governo regionale. Che mai come in questa fase, oltre ad espiare le proprie colpe, ha bisogno di Roma.