C’era come un presagio, uno strano presentimento quella sera di maggio a Cannes quando, premiato con la Palma alla Carriera dopo una serie di inutili e risibili polemiche sessiste e politiche (dal machismo alla destra), Alain Delon non ha retto all’emozione e, pur dicendosi felice per quel riconoscimento, lo ha tradotto come una sorta di malinconico traguardo a una vita ribalda, spericolata, di successo, come fosse definitivamente certificato, in quella targa, un tramonto non più procrastinabile, un trovarsi al capolinea, al limite, sull’orizzonte, poi chissà…
Tanti auguri per una buona ripresa, dunque, ora che si trova in Svizzera per un riposo forzato dopo la «leggera» emorragia cerebrale causata da un ictus tra il 10 e l’11 luglio, un intervento «delicato» e tre settimane in terapia intensiva, prima delle dimissioni e del trasferimento per una convalescenza tranquilla e segreta, possibilmente lontana dal cinismo dei paparazzi. Funzioni vitali «perfette», assicura Anthony, il figlio che gli somiglia tanto in quella bellezza rigata solo dagli anni, maschia, assoluta.
Quella bellezza che incantò anche Palermo e la Sicilia quando Visconti lo volle per il ruolo di Tancredi nel «Gattopardo». Anzi, sarebbe più esatto dire che lo volle nuovamente dopo che lo aveva fatto debuttare in Italia – un paio d’anni prima – in «Rocco e i suoi fratelli». Meglio ancora ricompose una coppia per il romanzo di Tomasi di Lampedusa: Delon e Claudia Cardinale che in «Rocco» era Ginetta, fidanzata col fratello del protagonista. Delon-Tancredi e la Cardinale-Angelica, una coppia che sarebbe diventata un’icona del grande schermo, lei soprattutto che se ne è fatta testimonial fino ai nostri giorni, di quella pellicola al confine del mito, quasi una Madonna pellegrina nel ricordo di quel vaporoso abito avorio in organza disegnato da Piero Tosi che faceva il paio con il fascino di lui, elegantissimo nel suo frac.
Quando due anni fa tornò a Palermo in quello stesso salone di Palazzo Ganci, in piazzetta Croce dei Vespri, per un documentario televisivo di France 2, «Sur les traces du Guépard», si emozionò, il bel Tancredi, ormai ottantunenne, gli occhi quasi gli si inumidirono, il fiato si spezzò, tirò su due o tre moccoli, «oh la vache!» esclamò soltanto (da noi sarebbe un «accidenti!») quando spalancò la porta di legno intarsiata che immetteva tra quegli stucchi, nello scintillìo di quei lampadari di cristallo, su quel pavimento di antiche maioliche.
Ne era invaghito Visconti, nei giorni palermitani, di quel bruno d’Oltralpe, ne era anche geloso nonostante il ragazzo si schermisse come poteva di fronte al maestro spesso dispotico. Si favoleggia di serate infinite a Villa Igiea, nonostante le fatiche del set e l’incubo della sveglia al mattino presto, di long drink e risate sulle terrazze a mare, il francese tutto in bianco, in candide camicie di lino, lei in pantaloni Capri, maglie di filo con scollo a barca e ballerine ai piedi e il conte-artista già maturo a rimirarsele compiaciuto, quelle due gioventù, distratto solo da un’altra bellezza, bionda stavolta, e cerulea di sguardo, incarnata in Mario Girotti, il garibaldino Cavriaghi, il futuro Terence Hill. Dicono che di Palermo e della Sicilia, il promettente attore che arrivava dalla provincia francese, poco distante da quella Parigi dove sarebbe scappato a cercare fortuna, restò letteralmente stregato.
Ci furono altre occasioni in cui Delon si ritrovò in consonanza con l’isola e tra queste il set de «Il clan dei siciliani» in cui Jean Gabin era l’emigrato di origini sicule, con attività illegali, con il quale il criminale Alain avrebbe fatto combutta. E nel copione, assai meno sul set, dicono, sarebbero andati d’accordissimo. Almeno fino all’epilogo, dove sarebbe finita «a schifio».