Dopo “cinque anni di martirio alla Regione siciliana, di finti scoop e scandali inesistenti” (parole sue) Rosario Crocetta ha scelto di tagliare la corda, rifugiandosi a Hiboun, nella regione di Mahdia, dove la vita costa un terzo rispetto all’Italia e si paga il 7% di tasse sulla pensione. Che paradiso la Tunisia. L’ex sindaco di Gela, che durante la sua permanenza a Palazzo d’Orleans ha cambiato 35 assessori, non vuole più sentir parlare di politica. Vive in un quartiere di intellettuali, lo conoscono tutti, lo chiamano “presidente Rosario”. Si è rifugiato in quell’oasi per leccarsi le ferite e riflettere. Balla coi bambini, s’intrattiene con i commercianti di spezie, sorride. Com’è lontana Palermo. Il presidente della commissione Antimafia Claudio Fava avrebbe voluto sentirlo in audizione sul caso Montante, in cui Crocetta risulta indagato per associazione a delinquere, ma lui non ha voluto saperne. Pensare che in quel momento di trovava alla bouvette dell’Ars, a mangiare insieme a vecchi amici. Uno dei rari momenti in cui si è concesso alla Sicilia, ad eccezione delle ultime Amministrative, quando si è recato a votare nella sua Gela. Di tanto in tanto torna in Italia, ma il suo è un atteggiamento da eremita, che mal si concilia con chi per anni ha gestito il potere e ha occupato le poltrone più ambite. Ha scelto di godersi il “dopo”.
Non è l’unico, fra gli ex governatori, ad essersi trovato un’alternativa. L’altro esempio celebre è quello di Totò Cuffaro, a lungo sulla cresta dell’onda, ma spinto via dai fuochi ardenti della giustizia. Totò Vasa Vasa, dopo aver scontato quasi sette anni di reclusione a Rebibbia per concorso esterno, non ne ha più voluto sapere. Sebbene resti un personaggio influente, capace di spostare un buon numero di voti e regolare i giochi attorno alle alleanze, se n’è rimasto in disparte, lontano da incarichi para-pubblici. Alle ultime Europee stava con Romano, suo vecchio amico. A Palermo si è rifatto vivo per un paio di occasioni particolari: una volta a Palazzo dei Normanni, dove ha rimesso piede dopo dieci anni, per un convegno sui detenuti; e un’altra, al Teatro Massimo, per uno spettacolo di gala che raccoglieva fondi per le popolazioni del Burundi, paese africano in cui Cuffaro è impegnato da anni con la sua professione di medico volontario. Assieme all’associazione “Aiutiamo il Burundi” sta cercando di costruire un ospedale e dare una speranza a chi sta peggio: “In Burundi un bambino che si spezza un femore rischia di rimanere storpio a vita” ha detto in un’intervista a Buttanissima.
L’altro presidentissimo, Raffaele Lombardo, è ancora molto influente nella politica siciliana. Presente in parlamento e nel governo coi suoi uomini (l’assessore all’Economia Antonio Scavone è il suo braccio operativo), non si è mai esposto più del dovuto. Non in prima persona. Se non a qualche convention autonomista, in cui rifuggiva sistematicamente dalle prime file. Si sta occupando del processo che lo vede imputato per concorso esterno in associazione mafiosa: la Cassazione ha annullato la sentenza di secondo grado in cui il leader del Mpa era stato assolto. Tutto da rifare.
Il piano-B dei politici è tra i più variegati. In Sicilia di potenti ne sono passati a iosa. E’ partita da Agrigento, da Forza Italia e dal Cav. la storia di Angelino Alfano, tre volte ministro. Della giustizia con Berlusconi, dell’Interno con Matteo Renzi e degli Esteri con Paolo Gentiloni. Ha volteggiato da destra a sinistra, alla ricerca di quel “quid” che il capo supremo di Forza Italia, pur lanciandolo come l’ennesimo delfino, non gli ha mai riconosciuto. Che delusione per Angelino. Arrivato a ripudiare Silvio e mai il potere, ha garantito una stampella fondamentale per l’esistenza in vita dei governi “tecnici” del Pd, dal 2013 in avanti, quando si consumò la frattura con il Pdl. Lo ha fatto fino all’ultimo dei suoi giorni, ma ha scelto di ritirarsi dalla politica alla vigilia delle ultime elezioni, dato che la sua Alternativa Popolare, figlia del Nuovo Centrodestra, era un partito che non tirava per nulla. Si è rifugiato dietro la barba che non sarebbe piaciuta al Cavaliere, a qualche sonata al karaoke. Poi si è rimesso in riga: prima ha ottenuto un prestigioso incarico in Africa con lo studio legale Bonelli Erede Pappalardo. Angelino, detto Alfano l’africano. Adesso, invece, è stato nominato a capo di un gruppo leader della sanità privata, il San Donato.
Il suo fondatore, da cui prende il nome la holding di riferimento, è Giuseppe Rotelli, scomparso nel 2013. Ottimo amico di Berlusconi, del governatore lombardo Roberto Formigoni, con cui scrisse una riforma della Sanità, del socialista Carlo Tognoli, ex sindaco di Milano. Il presidente Alfano dovrà traghettare il gruppo in Borsa e provvedere alla sua espansione nell’area del Sud-Est asiatico. Il Gruppo Rotelli gestisce 19 ospedali (tra cui il San Raffaele di Milano) e cliniche private, 5 mila posti letto, 16 mila lavoratori tra medici, dipendenti e amministrativi, 1,65 miliardi di ricavi nel 2018. Un colosso della sanità, che vanta ottimi uffici nella politica. Ha costruito parte delle due fortune tramite gli accreditamenti regionali. Il contatto fra Alfano e Paolo Rotelli, figlio di Giuseppe, si chiama Barbara Cittadini, presidente della associazione delle cliniche private, ma soprattutto moglie di Dore Misuraca, ex deputato regionale e parlamentare nazionale che ha fatto con Alfano un bel pezzo di strada insieme.
Misuraca. Le ultime notizie sul suo conto risalgono a più di un anno fa, quando si fece immortalare con Davide Faraone e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando – alla cui riconferma a Palazzo della Aquile aveva contribuito anche lui – nel giorno della sua adesione al Partito Democratico. Una scelta figlia di un’intuizione: rappresentare un argine ai populismi. Disse anche di non essere stato lui a cambiare, ma la politica. Misuraca, nella penultima legislatura al fianco di Alfano, è stato tra quelli che ha vissuto l’allontanamento da Forza Italia e Berlusconi e l’avvicinamento alla sinistra, a un Pd di governo che ha ricevuto sonore bocciature sia a Palermo che a Roma. Si è impegnato al fianco dei “dem” dopo aver servito due volte gli azzurri da assessore regionale e una volta da capogruppo in assemblea. Lo stesso percorso, più o meno, di Giuseppe Castiglione, l’ex sottosegretario alle Politiche Agricole, anch’egli sodale di Alfano. Che dopo la fine di Ncd, però, è tornato in Forza Italia senza suscitare grossi entusiasmi.
Oggi Castiglione è imputato nel processo del Cara di Mineo, quello che è stato a lungo il centro d’accoglienza richiedenti asilo più grande d’Europa (e che adesso Salvini ha chiuso), relativamente alla concessione dell’appalto dei servizi fra il 2011 e il 2014, quando lui era soggetto attuatore (messo lì da Alfano). Ha ottenuto il giudizio immediato e dovrà difendersi da accuse come falso e turbativa d’asta. Nel frattempo ha abbandonato il proscenio politico. Dà una mano ai figli nella produzione di cannabis light: la Ancapa Srl si è fusa in una joint venture con un’azienda canadese specializzata nella produzione di marijuana (legalizzata), e prodotti per la cosmetica e la farmaceutica. Anche se Castiglione rivendica per sé un ruolo di secondo piano. Il suocero Pino Firrarello, ex sindaco di Bronte e senatore di lungo corso, adesso un po’ stagionato, si gode invece la pensione.
Tra i grandi ex della politica siciliana, uno che ogni tanto si riaffaccia sulla scena è Gianpiero D’Alia, uomo di punta dell’Udc, deputato per tre legislature ma soprattutto Ministro per la Pubblica Amministrazione e Semplificazione durante il governo di Enrico Letta. Quando la sinistra pescava nel centro-destra con successo. Aveva rinunciato a ogni incarico politico, fin quando alla sua porta non bussò il Csm della giustizia tributaria: la Camera dei Deputati lo nomina membro del Consiglio di presidenza (luglio 2018). L’organo di governo autonomo dei giudici tributari (che si occupano delle controversie legate al pagamento dei tributi) gestisce qualcosa come 3,5 milioni l’anno. Non è tutto: D’Alia, da poche settimane, è stato nominato componente del collegio degli arbitri bancari finanziari di Milano dalla Banca d’Italia, su designazione da parte della stessa Banca d’Italia, del Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (Cncu) e del conciliatore bancario finanziario. L’incarico avrà durata triennale. Non è esattamente una vita scevra dal potere la sua.
Ha preso tutt’altro indirizzo Francesco Cascio, ex presidente dell’Ars, che da più di un anno ha ripreso a fare il medico e si trova nel poliambulatorio di Lampedusa, dove si assistono i migranti. Al posto di Pietro Bartolo, che ha da poco intrapreso la carriera di europarlamentare. Anche Cascio è rimasto a lungo nell’orbita di Angelino Alfano e nell’ultimo periodo il suo nome è stato associato a un’inchiesta delicata sulla superloggia massonica di Castelvetrano (al momento “sgonfiata” dal Riesame di Palermo). Ha scelto la politica – nonostante le brutte figure di Liberi e Uguali e un contenzioso coi tesorieri del Pd – un altro siciliano doc: l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, che in passato faceva il procuratore nazionale antimafia. Entrato in Parlamento nel 2013 non ne è più uscito: adesso è un senatore semplice. Ma pur sempre un’istituzione.