Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Il Mediterraneo in questo caso. Dove le politiche di immigrazione di Matteo Salvini rischiano di annegare. Il leader della Lega e Ministro dell’Interno, che per il primo appuntamento istituzionale ha scelto Pozzallo, staziona fra due fuochi. Da un lato la voglia sfrenata di una “svolta”, chiesta e attesa dal suo popolo. Perché commuoversi – parole sue – non servirà a risolvere i problemi. Dall’altro l’applicazione delle misure pensate e previste: difficile immaginarne qualcuna di concreta, almeno a breve termine.

Ad esempio dei 500mila irregolari “accolti” in Italia, di cui Salvini vorrebbe rimpatriarne buona parte (se non tutti), in molti sono destinati a rimanere. Per una duplice ragione: i costi – servono da 5 a 6 mila euro per riaccompagnarne a casa anche solo uno – e la burocrazia, dato che i clandestini andrebbero riportati ognuno nel proprio Paese d’origine e non in quello di provenienza. In parole povere: per ogni barcone di disperati che arriva dalla Libia, dovrebbe avvenire un attento censimento delle decine di nazionalità presenti sulla carretta e, solo successivamente, provvedere al rimpatrio.

E’ una procedura complessa, a cui Salvini e i Cinque Stelle hanno dedicato un capitolo del loro contratto di governo: quello relativo alla creazione di nuovi centri di identificazione e di espulsione (CIE), almeno uno per ogni regione d’Italia. Ma soprattutto al Nord questi CIE non li vogliono. Poco importa se a proporli sia Salvini. Rappresentano, nell’immaginario collettivo, un problema di pubblica sicurezza e rimangono strettamente legati – chissà per quale logica contorta – allo stupro subito da una ragazza o allo scippo perpetrato ai danni di una vecchietta. E’ qui che il ministro dell’Interno rischia di rimanere soffocato dalla sua stessa propaganda, che gli impedirebbe – se non tra fischi e insulti che nei confronti del Carroccio al momento paiono deposti – di portare avanti il suo programma.

Detto che i respingimenti in mare sono stati bollati come “illegittimi” dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, a Matteo resta una possibilità: la prova di forza. Che ha già provocato uno scossone nei rapporti con la Tunisia (“paese che esposta galeotti e non gentiluomini”). Ma anche l’idea di battere i pugni sui tavoli rischierebbe una reazione opposta e contraria: estremizzando, la sospensione del Tratto di Schengen, per dire a Salvini che “lui sarà bravo a battere i pugni ma noi più influenti nel prendere decisioni”. Convincere l’Unione a rispettare i patti di redistribuzione dei migranti, o magari trovare nuove vie, andrà fatto con la massima cautela.

L’ultimo appiglio, insomma, è cercare di rafforzare gli accordi bilaterali coi paesi subsahariani, come hanno tentato di fare in passato Maroni e Minniti. O magari – qui però la storia si fa tremendamente lunga – tentare di coinvolgere l’Onu per la creazione e gestione di campi profughi in Libia, in modo da creare un corridoio per i soli migranti regolari che a quel punto avrebbero finalmente facoltà di sbarcare sulla nostre coste. Caro Matteo, avrai capito che per ottenere risultati bisognerà armarsi di pazienza. E di quel pizzico di diplomazia – la Tunisia insegna – che non guasta mai.