Il sonno della ragione produce ministri. Così un Alberto Arbasino sferzante vizi e virtù italiche, non avendo di certo in mente che un giorno il Paese sarebbe finito nelle tozze manine dei Salvini e dei Di Maio.
Protagonista nascosto della vera Dolce Vita, quella scimmiottata – a suo dire – dai Fellini e dai Cuny colpevoli di aver segnato la fine di un mondo e l’inizio di un mito, Arbasino è stato anche progenitore delle moderne tenzoni da salotto televisivo.
Match – questo il nome del programma condotto dal Nostro, trasmesso dalla Rai tra il 1977 e 1978 – offriva un formato goloso anche per i palati più vogliosi della gauche caviar.
Arbasino, più nelle vesti di istigatore che in quelle di moderatore, aizzava i due ospiti puntando allo scontro in diretta.
Insomma, un antesignano – con le dovutissime differenze – dei Non è l’Arena, dei presentatori à la Paragone e del più mite Pomeriggio Cinque.
Acclarato il ruolo fondamentale delle TV nelle vicende politiche del nostro Paese e ultimamente anche nella formazione delle squadre di Governo – per quel principio modernissimo di potenza dell’influencer – è interessante notare come quel modello di “fare audience”, in quarant’anni di evoluzione dei gusti, sia arrivato ai nostri giorni mutuando forme, ruoli, posture a discapito, nostro malgrado, non dei soli toni.
Niente più salotti televisivi in cui pubblico, ospiti e conduttori, tutti attori perfettamente calati nel loro ruolo, con estremo garbo interpretano il copione e conducono per mano lo spettatore attraverso uno scambio di opinioni discordanti, a volte contrastanti, ma sempre formalmente rispettose l’una dell’altra.
Il gusto contemporaneo, in un’epoca dai moltissimi gusti – direbbe Dorfles –, è urlato, fazioso, caciarone. Una TV liofilizzata, concentrata in slogan da stadio, emotivi, de pancia. Lo specchio – anzi, lo schermo – del dibattito politico italiano.
Ai Montanelli vs Bocca, ai Moravia vs Sanguineti, agli Albertazzi vs Memè Perlini rispondiamo fieramente coi Di Battista, i Crocetta, i Klaus Davi e le Barbare (sic) D’Urso.
Arbasino, dica la verità: avesse visto questi qui, avrebbe davvero sentito l’esigenza di mutare anche una sola, singola, fottutissima lettera dalle parole di Goya?