Se Palermo è la quinta città d’Italia, e il sindaco Orlando si gioca questa carta ogni volta che può, da oggi sappiamo che Catania è la decima. Qualche posizione più in basso, ma c’è. A ricordarcelo – e chi sennò – sono stati il governatore Nello Musumeci, che di Catania è stato anche presidente della provincia, e l’attuale primo cittadino Salvo Pogliese (maledetto il giorno che scelse di dimettersi da deputato europeo per venire a fare il sindaco). Prima di ritrovarsi “compari” – magari – nella nuova formazione politica che guarda con simpatia alla Lega di Matteo Salvini, i due si trovano in prima fila per combattere una crociata con poche chance di vittoria: evitare il fallimento della città etnea. Hai voglia a dire che si tratta della decima più grande d’Italia: né Salvini – che fra l’altro una mezza pensata ce l’aveva pure fatta – né Di Maio sembrano così disposti a inserire un emendamento “Salva Catania” nella legge di conversione del decreto Crescita in discussione oggi alla Camera dei Deputati.
Ma come? Un trattamento simile per la decima città d’Italia? Catania è anche rappresentata al governo e ieri, qualche testata locale, si augurava che la ministra della Salute – Giulia Grillo del Movimento 5 Stelle – se ne ricordasse e tornasse a muovere un dito per imbonire i colleghi. Non solo. Catania è la terra di Musumeci, che alle pendici dell’Etna ha fatto nascere Diventerà Bellissima – si è tenuto in città il congresso che ha determinato la linea futura del partito – e che da quelle parti ci ha organizzato persino la Fiera del Cavallo, riabilitando la vecchia stazione di monta di Ambelia, a due passi da casa sua, Militello, con un finanziamento di oltre un milione di euro. Ma questo non importa, è scenografia. Catania, che dopo le ultime elezioni Europee ha spedito persino un paio di deputati a rappresentarla in Europa (Giarrusso del M5S e Stancanelli di Fratelli d’Italia), ha un peso specifico importante nei rapporti di forza siciliani.
Come detto è la città di Musumeci, ma anche quella di Raffaele Lombardo, che vi ha pescato il suo assessore di riferimento in giunta, oltre a qualche incarico di sottogoverno (vedi il cognato, diventato manager all’Asp di Enna, o Gaetano Tafuri, presidente dell’Ast). E a proposito di sottogoverno – questo è un tema che dovrebbe aiutarci a capire chi conta e perché – Musumeci ha costruito a Catania il “cerchio magico” dei suoi interessi (politici e amicali): il suo capo di gabinetto, l’avvocato Giacomo Gargano, è il presidente dell’Irfis; il suo tributarista di fiducia, catanese anch’egli, Vito Branca, è in capo a Riscossione Sicilia; e persino l’ex componente del gabinetto del sindaco Stancanelli, che di Musumeci è stato collaboratore fino a poche settimane fa, è finito sullo scranno più alto del Cefpas, l’ente di alta formazione dei medici. Si chiama, per l’appunto, Roberto Sanfilippo. E poi c’è Rosalba Panvini, che per effetto dell’ottimo impatto sulla soprintendenza di Catania – dove l’ha piazzata Musumeci togliendola da Siracusa – aspira ai Beni Culturali, l’assessorato che fino a qualche tempo fa era dello sfortunato professor Tusa e a cui il governatore tiene maledettamente.
Segno che quando vuole, Musumeci qualcosa ottiene. Ma non soltanto lui. Prendete ad esempio il sindaco Pogliese, che lo scorso anno asfaltò Enzo Bianco e si prese la poltrona a palazzo degli Elefanti. E’ uno influente: che ha ottimi rapporti con Salvini e con Berlusconi, che ha fatto saltare in aria i progetti di Forza Italia litigando con Miccichè alla vigilia delle Europee (per la mancata candidatura di La Via, altro catanese), che ha persino fatto eleggere due deputati a Bruxelles (lo ha detto lui. Si stratta di Stancanelli e della leghista Tardino). Uno che ha le mani in pasta dappertutto e un bel gruzzolo di voti. Tanto che nella costruzione della terza gamba del centrodestra, quella che si allunga da Musumeci a Toti, il governatore della Liguria, dovrebbe essere un uomo di punta. Però anche Pogliese, quando si tratta di ottenere un aiutino a Roma, fatica maledettamente.
Un paio di mesi e mezzo fa, quando già esisteva lo spettro di dover chiudere i servizi e lasciare al buio dei quartieri, aveva convocato al Comune le decine di parlamentari regionali e nazionali per esprimere la sua preoccupazione sullo stato delle finanze interne. Catania, che ha accumulato un debito di 1,6 miliardi di euro, e che nel dicembre scorso si è vista costretta a dichiarare il dissesto economico, dovrà onorare da qui al 2045 un mutuo pari a 950 milioni. La prima rata scade l’1 luglio e ammonta a 22 milioni. Soldi che non sono nella disponibilità della tesoreria. Il pagamento va sospeso. Da qui l’ultimo sos del sindaco, che però al momento, oltre alla normale genesi della preoccupazione, non ha avuto grossi riscontri politici. Dall’1 luglio Pogliese rischia di dover sospendere il servizio dei trasporti pubblici, l’Amt, e la partecipata Pubbliservizi. La cattiva sorte è già toccata ad alcuni quartieri periferici della città, che si sono visti tagliare la luce per il mancato pagamento della corrente elettrica. E si potrebbe andare avanti all’infinito: perché oltre ai servizi, rischia il sistema del welfare e rischiano i dipendenti. Che solo la Regione del magnanimo Musumeci, nei mesi scorsi, ha salvato con un finanziamento straordinario di 8 milioni, mentre in commissione Bilancio è stato approvata un’anticipazione di cassa di 30 milioni per evitare il collasso immediato.
La Regione, che Etna-centrica un pochino lo è diventata (ogni anno, come quota del Fondo Autonomie locali, trasferisce al comune etneo una decina di milioni), ha provato a dare una mano. Anche se l’interlocuzione con Roma appare più difficile del previsto. Musumeci, in effetti, ha qualche problemino a rapportarsi con lo Stato. E agli ultimi appuntamenti di un certo peso – la dilazione del maxi disavanzo da 2 miliardi e lo stallo delle ex province – ha mandato in avanscoperta il fido assessore all’Economia Gaetano Armao, che è sempre tornato a casa a mani vuote. Quindi, difficilmente l’ultimo accorato appello rivolto al presidente Giuseppe Conte, un paio di settimane fa, riuscirà nell’intento: “Non c’è più tempo da perdere – spiegava il presidente della Regione siciliana -. Il governo nazionale individui e attui subito la soluzione, così come sta facendo con Roma, per salvare il Comune di Catania dal tracollo definitivo, evitandogli così di dover portare i libri in tribunale per fallimento. Confido, pertanto, nella sensibilità del presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, affinché possa farsi personalmente carico del sistema per assicurare anche ai cittadini etnei il diritto ad avere strade, servizi sociali e scuole efficienti”.
Anche Pogliese, che di natura è un combattivo, e vanta buoni uffici al Ministero dell’Interno, ha provato a farsi sentire con quello che lui stesso ha definito “ultimo sos”: “Bisogna intervenire con la massima urgenza per sospendere il pagamento delle rate dei mutui entro il 30 giugno, incrementare la disponibilità di tesoreria e altre misure di sostegno” ha detto Pogliese, che ha invitato il “governo Conte a muoversi con iniziative mirate e non con generiche enunciazioni” perché, “non abbiamo chiesto né risorse a fondo perduto né contributi straordinari. Il Presidente Conte e i due vicepremier, Salvini e Di Maio – ha aggiunto il sindaco di Catania – sanno perfettamente che non abbiamo mai elemosinato generici aiuti, ma soltanto chiesto di essere messi nelle condizioni di ripartire e assumerci l’onere di poter formulare un bilancio stabilmente riequilibrato”.
Servirà una lettera a convincerli? O l’interlocuzione dei parlamentari? Per Salvini, magari sì. Quando i 5 Stelle avevano immaginato il “Salva Roma”, il leader della Lega bocciò in pieno l’idea, dicendo che si sarebbe dovuto fare un provvedimento per tutti i comuni in difficoltà, tra cui Catania. Non che negli ultimi tempi l’esecutivo gialloverde ispiri tutta ‘sta fiducia. La Sicilia, che nei palazzi romani ha dimostrato di contare il giusto (eufemismo), è stata penalizzata sul tema delle infrastrutture, della tonnara di Favignana, delle ex province, della spalmatura in trent’anni del mega debito. Ma potrà mai il governo Conte portarsi appresso un fardello così enorme come il fallimento della decima città d’Italia?
I DEPUTATI DEI 5 STELLE: “ISTITUITO FONDO SALVA CATANIA”
“È stato istituito un fondo per aiutare le città metropolitane in dissesto, tra cui rientra anche Catania. Siamo riusciti, grazie ad un costante lavoro ad evitare il collasso definitivo del Comune di Catania”, affermano i parlamentari etnei del Movimento 5 Stelle in una nota, ancora priva di dettagli economici. “Mentre chi ha causato la bancarotta di una delle più importanti città italiane ha il coraggio di alzare il ditino e dare lezioni, noi abbiamo cercato e trovato – grazie alla collaborazione della viceministro Laura Castelli – una soluzione condivisa che eviterà il collasso aiutando Catania non solo con il fondo ma anche con anticipazioni di tesoreria”.
“Aver istituito questo fondo – proseguono i parlamentari – significa che i circa 1200 lavoratori di AMT e Multiservizi non dovranno andare a casa già da luglio, bloccando l’erogazione dei servizi, che la città non si fermerà, e gli stipendi dei dipendenti comunali potranno essere ancora pagati”. “A differenza delle giunte di centrodestra e centrosinistra che hanno causato lo spaventoso debito che attanaglia Catania, i rappresentanti del Movimento Cinquestelle stanno salvando la città, mettendosi a disposizione dei cittadini, dei lavoratori e dei catanesi tutti”.