Scrivono un libro all’anno, rilasciano un’intervista al giorno, non perdono un solo talk-show. Scortati da blindatissimi apparati di sicurezza e pressati da impegni sempre urgenti e sempre improrogabili, attraversano l’Italia in lungo e in largo: ora per una conferenza sulle trame oscure, ora per un dibattito sui registi occulti. Ma non finisce qui. Perché poi c’è da ritirare la cittadinanza onoraria assegnata dal comune che, come tutta la società civile, “ha fame e sete di verità e giustizia”; e c’è la scuola che vuole conoscere i misteri dell’oscena trattativa tra lo Stato, manco a dirlo corrotto, e i boss di Cosa nostra sempre in agguato e pronti a stritolare questa nostra fragile democrazia; e poi c’è da dare una mano all’amico giornalista che ha bisogno di uno scoop, di un brandello di novità – vera o semplicemente ipotizzata – che gli consenta di confezionare un’inchiesta con i fiocchi e di attribuire le sue congetture “ai sospetti del pm”; e poi c’è da posare davanti alle telecamere per un ultimo docufilm sulla madre di tutte le stragi, che il 23 maggio è quella di Capaci e il 19 luglio diventa quella di via D’Amelio; e poi c’è da contribuire alla sceneggiatura di un film che “ faccia finalmente luce sulla stagione oscura dei depistaggi”; e poi c’è da preparare il viaggio in Argentina per portare il seme del coraggio e della legalità anche in quel quartiere di Buenos Aires che Borges amava chiamare “Palermo di chitarra e coltello”. E sì, perché, il magistrato coraggioso, non può starsene chiuso in una stanza del Palazzo di Giustizia a fare semplicemente il magistrato: a interrogare testimoni, a cercare prove, a scavare tra fascicoli e dossier. Oggi per i magistrati coraggiosi c’è una nuova frontiera: il circo mediatico. Al quale attribuiscono, spesso a ragione, il potere magico di trasformare le loro ipotesi in verità assolute e le loro supposizioni in marmoree certezze. Dentro quel circo ci vivono ventiquattr’ore su ventiquattro. Senza imbarazzo, senza esitazioni, senza tentennamenti, senza scrupoli. Sanno che il circo – spesso, molto spesso – vale più di un processo lento e barboso celebrato davanti a una Corte d’Assise o a una Corte d’Appello; o davanti a quei parrucconi della Cassazione. E si lasciano andare. Come si è lasciato andare, la sera del 22 maggio negli studi de La7 l’eroe più in vista di questa antimafia mediatica ed editoriale: Nino Di Matteo. Che è stato pubblico ministero del processo di primo grado sulla Trattativa e che, dopo avere ottenuto condanne durissime e roboanti, ha lasciato gli uffici di Palermo ed è approdato trionfalmente alla procura nazionale di via Giulia a Roma, luogo geometrico delle massime strategie di contrasto contro tutte le mafie.
Una settimana prima che Di Matteo apparisse sugli schermi de La7, il procuratore Federico Cafiero De Raho, aveva lanciato l’idea di costituire un pool di magistrati, tutti coraggiosi e tutti in prima linea, per coordinare – tra Roma, Palermo, Firenze e Caltanissetta – l’inchiesta del secolo: quella destinata a smascherare finalmente le “entità esterne a Cosa nostra” che, a suo avviso, hanno avuto il ruolo di fiancheggiare boss e picciotti, mandanti e killer delle stragi del 1992 dove trovarono la morte, assieme ai ragazzi delle scorte, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Attentati per i quali sono stati già celebrati sei processi: quattro per Borsellino e due per Falcone; ma che Cafiero De Raho giudica ancora insufficienti perché le sentenze di condanna non hanno saputo consegnare alla giustizia la rete completa delle complicità e delle compromissioni ad altissimo livello. Da qui il progetto del pool – vaste programme, avrebbe commentato De Gaulle – nel quale il magistrato principe non poteva che essere lui, Di Matteo, il più conosciuto e il più amato fra tutte le toghe in servizio in via Giulia. Inutile dire degli applausi, sinceri e scroscianti, che il popolo dell’antimafia ha subito tributato alla procura nazionale; e altrettanto inutile ricordare l’inno di giubilo che i duri e puri hanno intonato personalmente a Cafiero De Raho, il super magistrato che aveva finalmente deciso, come Enrico Toti, di lanciare la stampella oltre la trincea e di calarsi negli abissi chiari dei misteri inconfessabili per ridare finalmente trasparenza e dignità alla storia della Repubblica.
Ma il tambureggiare della gloria è durato solo pochi giorni: giusto il tempo di attraversare l’aula bunker dell’Ucciardone dove, il 23 maggio, si commemorava Falcone. Perché due giorni dopo gli uffici di via Giulia diffondevano a sorpresa la notizia che Di Matteo era stato “con effetto immediato” rimosso dal pool e riassegnato al coordinamento delle indagini antimafia nella sperduta Catania. Un terremoto. Improvviso, inatteso, devastante. Perché?
Cafiero De Raho non aveva per nulla gradito la lunga e articolata intervista rilasciata da Di Matteo ad Andrea Purgatori de La7 per un programma, “Atlantide”, il cui intento era proprio quello di rivisitare la narrazione fatta, in questi ventisette anni, della strage di Capaci. Il pm della Trattativa si era offerto volentieri alle telecamere; e, altrettanto volentieri, aveva messo in fila misteri, ombre, vuoti e insufficienze delle precedenti indagini. Ma il suo capo, che tra l’altro non era stato neppure informato, ha ravvisato in quell’intervista la rivelazione di dettagli che avrebbero dovuto restare ancora segreti e ha reagito nella maniera più dura. Non solo lo ha allontanato dal pool; ma ha anche confezionato un dossier per il Consiglio superiore della magistratura sul quale chiede, va da sé, un pronunciamento ufficiale.
Per Di Matteo, inutile negarlo, la rimozione ha comportato un danno d’immagine pressoché irreparabile. Per Cafiero De Raho invece il ripensamento ha comportato un passaggio improvviso dal paradiso all’inferno, dagli altari della gloria alla polvere della gogna: gli stessi duri e puri che una settimana prima lo avevano sollevato sugli scudi in segno di riconoscenza per avere consegnato al pm della Trattativa l’aureola del Grande Inquisitore, hanno di colpo ribaltato il giudizio e hanno accusato il procuratore nazionale di essere il braccio subdolo e armato di chissà quale potere nascosto: certamente di un potere che non vuole né verità né giustizia; che non sopporta intromissioni di alcun genere nel santuario delle nefandezze; e che pretende soprattutto di salvaguardare il proprio diritto all’oscurità e alle coperture offerte dalla ragion di Stato.
Povero Cafiero De Raho. Chi glielo doveva dire? Nel giro di pochi giorni ha vissuto il momento magico dell’ascensione e il momento triste e malinconico della perdizione. E tutto questo perché Nino Di Matteo, magistrato palermitano, non aveva saputo rinunciare a un’intervista. La millesima intervista da quando è in carriera.
Ma una colpa Cafiero De Raho ce l’ha. Avrebbe dovuto sapere che il suo sostituto è un magistrato completamente calato nel circo mediatico. E avrebbe dovuto soprattutto sapere che Di Matteo professionalmente è nato e cresciuto alla scuola di Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che nella lunga vigilia delle elezioni del 2013 trasformò l’inchiesta sulla Trattativa, della quale era titolare, in una giostra a disposizione di giornali e talk-show; in un palcoscenico in cui lui recitava la parte dell’eroe protagonista ma dava anche spazio a una compagnia di giro che comprendeva tra gli altri un pataccaro di alta mafia, come Massimo Ciancimino, promosso per l’occasione a “icona dell’antimafia”. Lo fece indubbiamente per amore di giustizia e per diffondere il vangelo della Trattativa “in partibus infidelium”; persino in Guatemala, dove si recò per un mesetto, addirittura sotto l’egida dell’Onu, per potersi meglio collegare da lì con la trasmissione televisiva di Michele Santoro e parlare della monumentale inchiesta che nelle intenzioni sue e dei giornalisti che lo intervistavano avrebbe dovuto scardinare da lì a poco i palazzi del potere. Poi, ma questa è già storia, Ingroia tentò il colpo grosso: inebriato dalle interviste e dalla teatralità che il circo mediatico gli aveva creato attorno, credette di essere diventato l’uomo più popolare d’Italia e si lanciò in politica con una discesa in campo che avrebbe dovuto portarlo nientemeno che a Palazzo Chigi. Raggranellò purtroppo uno zero virgola. E si sfracellò: politicamente, s’intende. Lasciò la magistratura e imboccò la professione di avvocato. Era stato un tenore di fama, ora canta nei matrimoni. Peccato.
L’altro indizio che avrebbe dovuto spingere Cafiero De Raho a una maggiore cautela era il libro – titolo: “Il patto sporco” – che Di Matteo ha scritto sulla Trattativa dopo avere difeso per cinque anni davanti ai giudici della Corte d’Assise le ragioni dell’accusa. Un libro sostanzioso, legittimo, forse anche necessario. Ma che nel vortice delle presentazioni e dei programmi televisivi è diventato e continua a essere il pretesto per tenere in piedi nell’opinione pubblica un processo mediatico da contrappore al processo d’appello, quello vero, appena avviato a Palazzo di Giustizia e dal quale gli imputati della Trattativa, condannati in primo grado a pene pesantissime, si aspettano ovviamente risposte di segno inverso.
Quale dei due processi prevarrà? E qui sorge una domanda che riguarda, in generale, i libri. Perché si scrive, si chiedeva qualche anno fa un intellettuale “di preziosa favola” come Gesualdo Bufalino. Rispondeva che scrivere rappresenta “in qualche modo una colpa: forse macchiarsi le mani di inchiostro è come macchiarsele un poco di sangue: uno scrittore non è mai innocente”.