Quando era capo delle cronache regionali al «Giornale di Sicilia» Nonuccio Anselmo aveva un gran bel da fare con le nove province dell’Isola dove, specie tra gli anni ’70 e ’80, un bel po’ di turbolenza malavitosa c’era. Eppure niente lo affascinava quanto le piccole storie, le curiosità, certe stramberie. Venne a sapere, ad esempio, da un corrispondente di un piccolo paese dell’Agrigentino, che c’era un tizio che girava da giorni per le strade con una «500» annunciando attraverso l’altoparlante piazzato sul tettuccio l’imminente fine del mondo. Pubblicò una ventina di righe ma era chiaro che voleva mandarci un inviato per capire chi, come e perché. Purtroppo, assurto agli onori pur se fulminei e anonimi della notorietà per quella che era poco più di notizia «in breve», il profeta con uso di utilitaria scomparve nel nulla. Lui, Nonuccio, non se ne fece mai una ragione.
Le storie minime compaiono anche ne La casa dorata che è il suo nuovo romanzo (Mohicani Edizioni) e s’incrociano con la Storia, quella con la esse maiuscola. E sono storie di paese perché lui è di Corleone (anche se inurbato da troppi decenni) ma quel suo paese in verità s’intravede appena ché lui non vuole troppi ricatti «alla Vigata» tra le carte. Si potrebbe dire che ad Anselmo piace il «giallo» come genere letterario ma il «giallo» è poco più che un pretesto (qui è il fortuito ritrovamento di un forziere in una stanza murata da tempo) perché è il gioco delle parti in commedia che lo interessa maggiormente, la descrizione di certi immancabili rituali che solo in provincia sopravvivono, le vite minime ed apparentemente insignificanti che confluiscono nell’alveo di esistenze ben più titolate e iscritte nei patri destini, le ricerche storiche sugli annali attraverso i cui fogli il passato spiega i misteri del presente: il comandante della polizia municipale e il maresciallo dei carabinieri che non potrebbero essere più diversi tra loro e però sono sodali e appresso a loro tutta una serie di tipi e sottotipi (a cominciare dalle rispettive consorti) che diventa un piacere ritagliare insieme con l’autore queste figure e figurette; le prime colazioni di taralli e caffellatte, le congetture che si annodano e si snodano nel percorso tra una punta e l’altra di un cannolo, le straripanti libagioni di pranzi campestri che non sono altro che alibi per approfondire le indagini al di là del protocollo e dell’ufficialità; l’archivio delle carte che è non solo excursus attraverso casate patrizie e discendenze contadine o borghesi ma anche lettura e spiegazione dell’evoluzione di una comunità se pur piccola.
Su tutto, una caratteristica del giornalista-scrittore ma soprattutto dell’uomo Nonuccio Anselmo: l’ironia, la voglia demistificatrice delle storie e della Storia che qui s’appunta su un vecchio gerarca fascista, uomo apparentemente tutto d’un pezzo come Palazzo Venezia comandava ma che in realtà credeva, obbediva e combatteva per una causa molto più terrena di quella che gli imponeva l’ardore patriottico.