Il peso del Pd in Sicilia è impossibile, al momento, da misurare. L’unico comune in cui il candidato sindaco indossava i panni “dem” era Castelvetrano: Pasquale Calamia, consigliere comunale uscente e vittima d’intimidazioni da parte della mafia, ha concluso la sua corsa al terzo posto, con un 17% che suona certamente meglio delle debacle alle ultime Politiche, ma che non è abbastanza per parlare di successo. Quello trapanese è l’unico comune in cui Nicola Zingaretti, nuovo segretario nazionale del partito, ha scelto di fare un comizio e concedere il simbolo. Un segnale per la legalità. Negli altri 33, il Pd si è mascherato, assumendo di volta in volta nuove connotazioni. A volte si è persino sdoppiato, come nel caso di Monreale: dove una parte – i renziani – può dirsi soddisfatta per aver raggiunto il ballottaggio con Capizzi (sfiderà Arcidiacono, il candidato di Musumeci) e un’altra, invece, delusa per aver fallito con Roberto Gambino (che è solo omonimo del candidato dei 5 Stelle a Caltanissetta).
Il Pd si divide, si mischia, si intrufola nei meandri del civismo. Allo scopo di apparire riconoscibile quando si vince – Davide Faraone ha esultato per le vittorie di Salemi e Brolo – e invisibile se si perde. Forse perché al momento non ha ancora trovato un’anima, sebbene, a livello regionale, sia riuscito a firmare una tregua. E’ ancora troppo presto per parlare di armistizio, che potrebbe arrivare solo nel caso in cui alle Europee la scelta di puntare sulla società civile, anziché sui ras delle preferenze, pagherà dividendi. Altrimenti no: rischiano di esplodere le vecchie tensioni, che vedono la corrente zingarettiana messa di traverso sin dal 23 dicembre scorso, quando Davide Faraone si prese il trono di via Bentivegna senza passare da una legittimazione assembleare – ma era stata la Piccione a ritirarsi alla vigilia delle Primarie – bensì da un’autoproclamazione che sfociò in un fiume di ricorsi.
Questa è l’identità frammentata di un partito che a questo giro, come Forza Italia, ha scoperto che per battere populisti e sovranisti vari, i Salvini e Di Maio di turno, occorre comunque mimetizzarsi. E c’è riuscito benino: a Bagheria, per esempio, una buona fetta del Pd ha sostenuto Filippo Tripoli, l’uomo di Saverio Romano che ha trionfato al primo turno. Molti dicono che abbia vinto il centrosinistra, ma anche il centrodestra rivendica la sua parte. Faraone quel successo lo sente proprio. E sente proprio, come ovvio, il ballottaggio conquistato a Gela da Lucio Greco, il candidato sostenuto occultamente dal Partito Democratico e da Forza Italia, che per la causa si è spesa più della sinistra (provocando smottamenti al suo interno). Ma rispetto al principale partito del centrodestra – con Miccichè che rivendica la formazione di un fronte anti-populisti, per non dire altro – il Pd è come se di questa alleanza si vergognasse un po’. E da essa provasse a scappare. Tanto che Faraone, in alcune dichiarazioni post-partita, si è affrettato a derubricarla: “Solo logiche dettate dai territori che hanno individuato gli uomini idonei a rappresentare le loro istanze”.
“E’ così che si fa, dunque ci adattiamo” sembra il refrain. Per la classe dirigente siciliana, che tregua a parte continua ad essere spacchettata, sarebbe complesso, molto complesso – ora che Zingaretti rivendica con forza la sua linea – “inciuciare” con Miccichè, la cui dichiarazione di qualche giorno fa al Corriere rischia di aver minato un po’ le acque: “Con il Pd di Faraone siamo in una fase dialogante, ma non concludente. Loro parlano, parlano ma non si concretizza. E dovrebbero farlo”. Un po’ di imbarazzo ci sarà, specie se questo pressing, e questo dialogo già avviato, arriverà all’orecchio di qualcuno che conta e che, invece, sembrerebbe propendere per alleanze diverse: la sinistra in versione Ulivo e, al massimo, un’intesa coi Cinque Stelle su singoli provvedimenti (la proposta di Zingaretti sul salario minimo). A proposito di Cinque Stelle: si narra che a Castelvetrano, comune interessato dal ballottaggio, “dem” e grillini possano siglare un’intesa sottobanco e favorire Enzo Alfano (M5S) contro il centrista Calogero Martire. Un altro laboratorio, l’ennesimo, ma di segno opposto.
In questa incertezza imperante, c’è un elemento che fa sperare: il Pd non è un partito isolato. Sa di contare, di essere allettante. Ci sono momenti della vita in cui giocare da comparsa può essere produttivo più che recitare da protagonista. Ma dopo il secondo turno delle Amministrative (il 12 maggio), che nasconde insidie e indizi nuovi, c’è il capitolo Europee, dove il simbolo è d’obbligo, come la pretesa di non sfigurare. Alcune candidature – viene in mente quella di Pietro Bartolo – stanno riscuotendo un notevole interesse fuori dal recinto. A sostegno del medico di Lampedusa si sono fiondati Claudio Fava e il movimento democratico e progressista (i bersaniani), e non saranno gli unici. Riconoscendo al partito una certa bontà nella selezione di una classe dirigente nuova. Anche l’esperienza di alcuni sindaci come Ciaccio (Sambuca di Sicilia) e Licciardi (Ustica) potrebbe dare un contributo aperto al risultato finale, dato che nei piccoli comuni – i Salemi e i Brolo citati da Faraone – i “dem” riescono a competere e persino a vincere. Merito della classe dirigente o della classe operaia? In attesa di svelare l’arcano, il Partito Democratico sembra finalmente aver capito chi mandare in avanscoperta.