Confesso, a 26 anni di distanza. E non me ne vergogno, considerando il mio stato d’animo, in quella primavera del 1993. «Insomma, se qui c’è da bagnare le mani a qualcuno, bagniamogliele pure e non se ne parli più. Dimmelo con sincerità». L’impresario delle pompe funebri, peraltro storico seppellitore di famiglia, strabuzzò gli occhi come avessi bestemmiato, mi guardò fisso negli occhi e sbottò: «Ma che cosa stai dicendo? Con te? Con voi?». Non ho mai saputo se la questione fu derubricata o se la risolse lui in proprio. A quel punto poco importava, purché mio padre, oltre che la pace eterna, trovasse subito una sistemazione definitiva dopo quasi due mesi di attesa nel deposito del cimitero, ai Rotoli. Che la trovasse poi in una tomba che non fosse quella nostra, la sepoltura gentilizia che avevo imparato a conoscere fin da piccolo, anche questo poco importava perché, pure lì, tra zie che avevano fatto cambiare la dicitura in favore del bisnonno, tra parenti di grado largo che avevano chiesto temporanea ospitalità trasformatasi poi in soggiorno perpetuo, tra facce a stento rintracciabili nell’hard disk della familiarità o del tutto sconosciute che periodicamente sbucavano fuori sorridenti da fotografici ovali in ceramica con l’orribile colorazione delle cartoline di una volta (“saluti dall’aldilà”), non se ne capiva più nulla e mio padre, visita dopo visita, chiosava, con ironia cinematografica, «ormai ’sta tomba è come Grand hotel: gente che va, gente che viene…». Guai, poi, a chiedere di consultare i “libri mastri” dei morti, per capire di spostamenti, spurghi, questo al posto di quell’altro, salme come in tournée, alcune addirittura prematuramente scomparse, stessa sorte da morti e da vivi… l’ho fatto una volta, ho capito che sarei morto io, lì, al cimitero, sfogliando polverosi faldoni. Comunque, tornando al marzo ’93 e alla complicata sepoltura di mio padre, appena un paio di mesi dopo, la Procura della Repubblica s’accorse, udite udite, che il Cimitero dei Rotoli di Palermo era in mano alla mafia, che c’erano assessori e dirigenti comunali di quei servizi in odor di mazzette e un po’ di gente finì anche in galera.
Si legge adesso – su la Repubblica-Palermo – di altra vergogna, di altro strazio, di altro scandalo. Di una città dove, se già è complicato vivere, è ancora più problematico morire, e che, se la vita a cui si passa è “migliore”, almeno per chi ha fede, quella del poco che di noi resta, quaggiù, è indecorosa, indegna di una società civile, avara di ogni pietà umana o cristiana. 267 sono le bare che attendono sepoltura e ogni giorno decine le persone che vanno in pellegrinaggio in quel deposito, ai Rotoli, probabilmente, più che per pregare, per trovare l’ennesima stilla di conforto o per capacitarsi una volta per tutte dell’assenza, per chiedere indirettamente scusa, ai morti, per un trapasso che non ha nemmeno qualche mucchio di terra, quattro strette pareti, pochi centimetri quadri d’ardesia, una lapide pur se piccola a darle definitivo ristoro, sempiterna pace, permanente sistemazione. Anche stavolta, in forma dolorosa però, il cinema viene in soccorso, sembra di vedere quella sequenza che fa quasi raccapriccio di Un borghese piccolo piccolo di Monicelli dove Sordi va al Verano a far visita al figlio morto e si perde in quel deposito dove le bare sono accatastate una sull’altra e, d’un tratto, due, tre esplosioni, i gas cadaverici, la catasta di casse che smotta e viene giù.
Anche ai Rotoli c’è un piccolo castello di bare, o meglio, un condominio di morti approntato alla bell’e meglio su tubi Dalmine, con le foto incollate col nastro adesivo, di grande formato, in modo che si possano riconoscere facilmente i propri cari in caso di improvvisi spostamenti. Casse grandi, piccole, a volte le più piccole che scompaiono tra quelle grandi. 267 sono, finora, ma ogni giorno se ne assommano altre. Nessuno può garantire i morti, nessuno sembra poter promettere ai vivi. 450mila euro dovrebbero essere spesi per 800 loculi prefabbricati a 12 metri sottoterra, forse collocati entro l’estate, anche se il primo defunto della lista dei 267 aspetta da Natale scorso. Vietato morire ma vietato anche piangere se ci sono zone inibite alle visite a causa di Monte Pellegrino che ogni tanto viene giù, con fragore di roccia.
Nulla si sa del nuovo cimitero che avrebbe dovuto sorgere a Ciaculli, è tutto fermo da anni, troppi terreni da accorpare, troppi proprietari da mettere d’accordo: 28 mila, erano le stime per le sepolture, un tempo. Ma Sorella Morte ribalta le previsioni giorno dopo giorno. Sant’Orsola è privato ma anche lì, tra salme in deposito e loculi da riesaminare, la situazione non è delle migliori, così come ai Cappuccini mentre Santa Maria di Gesù è da anni quel meraviglioso, antico monumento dimenticato dai più che è.
La Palermo dei trapassati, dunque, aspetta: tra progetti rimasti sulle carte delle planimetrie, lentezze burocratiche, insipienza politica, lassismo. Ma se c’è un mondo in cui il tempo non è più nemmeno un’idea, qui, purtroppo, tra quei legni chiari o scuri con una croce sopra, il tempo corre con la fretta dell’urgenza e il dolore si è già trasformato in pubblico disappunto, in unanime condanna.