Quale demone manettaro ha convinto sabato scorso il pubblico ministero di Genova a spedire una pattuglia della Guardia di Finanza al confine di Ventimiglia per arrestare Anna Rita Zappulla, 62 anni, preside dell’istituto “Guglielmo Marconi” di Imperia e del “Cristoforo Colombo” di Sanremo?

Quali timori per la sicurezza pubblica hanno spinto quel magistrato ad accanirsi contro una gentile signora un po’ avanti negli anni e colpevole, sì e no, di avere utilizzato – non proprio per ragioni di servizio – l’automobile in dotazione alla sua scuola? La preside era andata a Montone ma il viaggio oltre confine non era sfuggito alle vecchie volpi che con tanto zelo vigilano sui nostri comportamenti, né agli apostoli dello “spazzacorrotti” né ai predicatori del principio secondo il quale in questo mondo di scandali e follia non ci sono innocenti ma solo delinquenti sfuggiti alle maglie della giustizia. “Che marciscano in galera”. L’imperativo è riecheggiato nel palazzo di giustizia di Genova, si è impresso sulle tavole della legge tenute in mano da un solerte procuratore della Repubblica e ha colpito senza misericordia la povera Anna Rita Zappulla che, con il peso dei suoi 62 anni, è stata rinchiusa per tre giorni e tre notti in una cella del carcere di Pontedecimo, assistita solo dalla pietà delle sue compagne di malasorte: “Quando ho raccontato alle altre detenute perché mi trovavo lì non ci volevano credere, sono state squisite con me”.

Ma sì, anche chi marcisce in galera alla fine ha un cuore. Ma non ditelo ai catecumeni dell’onestà-tà-tà. E non ditelo soprattutto a quelli che di fronte a ogni vampata di giustizialismo ripetono che bisogna comunque avere fiducia nella magistratura, che c’è una dialettica interna al sistema, che ci sono tanti gradi di giudizio e che alla fine la verità verrà sempre a galla. Certo, nessuno nega che l’ordine di custodia cautelare firmato dal pubblico ministero per chiudere in una cella Anna Rita Zappulla sia diventato dopo tre giorni carta straccia: il giudice delle indagini preliminari non ha convalidato il fermo perché non c’era l’acclarata pericolosità dell’indiziato, non c’era pericolo di fuga, non c’era il rischio della cosiddetta reiterazione del reato. Ma è altrettanto vero che dentro i tribunali si comincia a respirare – ma sì, usiamo questa formula elegante – lo spirito del tempo.

Non ci sono magistrati di regime: affermarlo sarebbe nient’altro che una scempiaggine. Né ci sono giudici apertamente schierati sulla linea forcaiola di quei grillini che non sopportano né la prescrizione né ogni altra garanzia a favore dell’imputato. Ma tra il castello dell’indipendenza, dentro il quale trova legittimità e protezione la parte sana della magistratura, e gli apparati di via Arenula, dove signoreggia un ministro di Giustizia espresso dai puri e duri dei Cinque Stelle, c’è una terra di mezzo, vasta e indefinita, nella quale si ritrovano, ad esempio, molti di quei magistrati, nati e cresciuti nel brodo dell’antipolitica, che non sono toghe rosse, né toghe gialle, né toghe verdi: sono semmai dei moralisti con la toga; o, più semplicemente, giudici intimamente convinti di essere venuti in terra per salvare il popolo dalle nefandezze del malgoverno, dalla piaga della corruzione e dagli insopportabili abusi di raccomandati e profittatori.

La vocazione moralista, che questo governo agevola e alimenta, è un male serpigno che non fa fatica a ingrottarsi nei palazzi di giustizia e, in particolare, negli uffici più esposti: quelli delle procure. E’ un male che spinge spesso alcuni magistrati a dilatare, anche involontariamente, i contorni criminali di fatti e avvenimenti che in altra epoca – e con un altro spirito del tempo – sarebbero magari apparsi di inutile o inessenziale consistenza. Pensate all’odor di mafia. O al sospetto di massoneria. O al voto di scambio. O all’abuso di ufficio. O all’ipotesi di peculato nella quale è rimasta impigliata la preside Zappulla. Di fronte a reati come questi – difficili da definire e difficili da provare – molti magistrati della terra di mezzo vedono e stravedono. Sia perché sono i reati che offrono maggiori spazi di interpretazione e quindi di manovra; sia perché consentono al pm di colpire in alto e di dare al popolo – al popolo sovrano – l’idea che finalmente la legge è uguale per tutti, che non ci sono più santuari protetti, che non esistono più impunità né zone franche. E che la pacchia è finita.

Capita però che, tra tanto zelo e tanto entusiasmo, non tutte le ciambelle riescano col buco. E capita pure che la voglia e la fretta di arrivare a un arresto clamoroso o a una retata senza precedenti, finisca per trasformare il colpo grosso in un colpo di teatro; o, peggio, in un contraccolpo dalle conseguenze disastrose per la credibilità della giustizia e di chi è chiamato ad amministrarla. Quello che è successo in queste ultime settimane in Sicilia, in partibus infidelium, sta a dimostrarlo. Per una singolare combinazione di elementi, la procura di Trapani si è trovata per le mani una serie di scempiaggini, di abusi e malversazioni che vedevano coinvolti alcuni politici di livello regionale, una loggia massonica e un comune, Castelvetrano, ormai diventato il reliquiario di tutte le mafie, di tutte le connivenze e di tutti i favoreggiamenti nei confronti di Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss di Cosa nostra ancora latitante.

A Castelvetrano viene fatta, mediamente, una retata a settimana e non c’è generale dei carabinieri o superprocuratore antimafia che non prometta di farne subito un’altra per stringere sempre più il cerchio attorno all’erede di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i sanguinari corleonesi delle stragi mafiose del 1992. Ma a metà marzo lo stupore, con annessi titoloni sui giornali, non è arrivato con la tanto annunciata cattura di Messina Denaro. Ma con una retata di ventisette malvissuti accusati di avere traccheggiato con la politica, di essersi arricchiti illegittimamente con i soldi della formazione professionale finanziata dalla Regione e soprattutto di avere scandalosamente tramato sotto la copertura di una loggia massonica; ovviamente segreta, segretissima, e innervata da chissà quali e quante trame oscure. La “retata della superloggia” – super come il super boss di Castelvetrano – non poteva essere più popolare. O più populista. Le intercettazioni sembravano fatte su misura per sputtanare le tresche degli onorevoli deputati, uno dei quali addirittura membro della commissione antimafia istituita dal Parlamento siciliano. C’era l’immancabile odor di mafia perché non esiste casa o strada di Castelvetrano dove non arrivi l’aria malsana legata all’invisibile presenza del boss. E c’erano anche i soldi, i tanti piccioli sottratti alle casse della Regione con gli intrighi e le raccomandazioni, con lo scambio di voti e di favori, con i ricatti e le complicità. Il popolo – il popolo sovrano – avrebbe finalmente avuto di che gioire: anche in quello stramaledetto angolo di Sicilia la pacchia era finita.

Ma c’era un però. Trapani, che ha tanto gonfiato il petto e ha tanto sbandierato la “brillante operazione”, non aveva alcuna competenza per farlo. Lo ha stabilito il Tribunale del riesame, sostenendo che i reati più gravi erano stati commessi a Palermo, tra i palazzi del potere regionale, e che spettava alla magistratura del capoluogo prendere in carico fascicoli e faldoni, decidere arresti e incriminazioni. Una doccia fredda per la procura trapanese. Anche in considerazione del fatto che l’ordinanza del Riesame ha comportato l’immediata scarcerazione dei ventisette e poco raccomandabili personaggi. Gli stessi che, nella notte della superloggia, erano stati ammanettati e impacchettati in modo tale da marcire in carcere per chissà quanti anni. Invece la gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi. Anche questo succede in quella terra di mezzo dov’è incerto il confine tra la legge e il moralismo, tra lo stato di diritto e lo spirito del tempo.