Loro, gli investigatori che lavorano in terra di mafia, tendono sempre a tranquillizzare. E se, per rendere sereni i cittadini, è necessaria una piccola bugia non sarà poi la fine del mondo. I vecchi cronisti di nera ricordano quel genio di Nino Mendolia, che fu capo della squadra mobile di Palermo nei primi anni Settanta, quando la criminalità non era ancora arrogante e pervasiva come oggi. Le cronache registravano già le prime rapine a mano armata; benzinai e gioiellieri mostravano allarme e preoccupazione ma Nino Mendolia nel “mattinale” – il rapporto che le questure inviavano ogni giorno al Viminale – non usava mai la parola rapina. Preferiva una formula più morbida e meno brutale: “scippo improprio”. Agli scippi i palermitani erano abituati, altroché. E la parola, nel corpo a corpo con la verità, sembrava uscire vittoriosa: cancellava miracolosamente l’immagine della pistola che poteva uccidere, e difatti uccideva; e riportava l’aggressione dentro un confine che la città, se non altro per forza di abitudine, ormai tollerava.

Torquato Accetto, che pure fu un gesuita di grande fede e di tenace concetto, messo di fronte alla maestria comunicativa di Melodia non avrebbe parlato di bugia né tantomeno di menzogna. Avrebbe semplicemente detto, richiamando il titolo di un suo fortunatissimo saggio pubblicato nel 1541, che il capo della squadra mobile palermitana si avvaleva di un esercizio non peccaminoso: la dissimulazione onesta.

Mendolia ha avuto, manco a dirlo, un’infinita schiera di seguaci. Ultimi in ordine di tempo due personaggi che, per i loro indiscutibili meriti e il loro impegno personale, si trovano ai vertici della lotta alla mafia: il procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho e il generale Giuseppe Governale, capo della Direzione investigativa. I due, incalzati dalle domande sulla sorte di Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra che da oltre venticinque anni sfugge alla giustizia, hanno dato per certo che il super latitante sarà presto catturato: parenti e picciotti, sospettati di favoreggiamento, sono stati tutti arrestati; la zona di Castelvetrano, nel trapanese, viene, come si suole dire, passata a setaccio giorno e notte; non c’è casolare o anfratto che sia stato ispezionato; non c’è telefonata che non sia stata intercettata. Non resta che attendere qualche giorno o qualche mese e la partita sarà definitivamente chiusa.

Stavolta però la dissimulazione onesta di Cafiero De Raho e del generale Governale (quest’ultimo ha usato toni più cauti: sarà catturato ma non sappiamo quando) si è scontrata con l’insofferenza di Paolo Guido, il procuratore aggiunto di Palermo, che probabilmente non ne può più delle finte medaglie che una certa antimafia vuole sempre appuntarsi sul petto. E ha rilasciato una dichiarazione davanti alla quale persino Torquato Accetto sarebbe rimasto senza parole. “Dicono che presto sarà catturato? Un latitante o si cattura o non si cattura”, ha tagliato corto Guido. “O lo abbiamo preso o non siamo vicini a prenderlo: perché, se fossimo vicini a prenderlo, peraltro annunciandolo, penso che il latitante difficilmente lo prenderemo…”.

Torquato Accetto, nel suo trattato di cinquecento anni fa, ha tracciato una netta distinzione tra la simulazione, quasi sempre ancorata a una falsificazione della realtà, e la dissimulazione il cui fine ultimo, invece, è quello di stendere un velo sulla realtà per smussare gli angoli, per attutire i contorni più aspri, per rendere meno insidioso il confronto. La simulazione serve per imbrogliare le carte, per truffare il prossimo, per alterare un discorso; mentre la dissimulazione – onesta, appunto – alla fine della giostra ha il solo scopo di somministrare quell’innocente e afrodisiaca impostura che tutti noi chiamiamo illusione.

Le rassicurazioni di procuratore nazionale antimafia e del capo della Dia nascevano quasi certamente da un ragionamento più semplice: non volevano mistificare il vero col falso né conciliare Machiavelli con il Sant’Uffizio, né accordare Tacito con Tiberio. Volevano solo tranquillizzare i siciliani e all’un tempo dire a ministri e governanti di questo paese che i responsabili di due importanti istituzioni, nate nella stagione delle stragi mafiose, non stanno con le mani in mano. Tutto legittimo, per carità. Ma Paolo Guido, procuratore della direzione antimafia di Palermo, ha visto troppi gorgheggi in questi ultimi tempi e ha detto chiaro e tondo che non ci sta. E non è il solo. Ormai chi si occupa ogni giorno di contrastare con intelligenza la criminalità organizzata sa bene che l’arte di sopravvalutare le cose di mafia spesso serve ai professionisti dell’antimafia per accrescere il proprio ruolo, per invocare crociate e leggi d’emergenza o, peggio ancora, per alimentare apparati che forse servivano ai tempi in cui la mafia vinceva e lo Stato perdeva mentre oggi la situazione appare onestamente del tutto invertita: i vecchi boss, a cominciare dai sanguinari corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, sono morti murati nel carcere duro, mentre i nuovi non hanno né l’arroganza né la capacità di mettere in piedi le stesse scelleratezze.

Paolo Guido, non va dimenticato, è lo stesso magistrato che nel 2012 rifiutò di sottoscrivere la richiesta di rinvio a giudizio di boss e alti ufficiali dei carabinieri coinvolti nell’inchiesta sulla cosiddetta “trattativa” tra lo Stato e i padrini di Cosa nostra. A suo avviso le prove non avrebbero retto al vaglio di tre gradi di giudizio. La sentenza di primo grado ha dato invece ragione agli altri quattro pm che hanno sostenuto l’accusa davanti alla Corte d’Assise. Uno di loro, Nino Di Matteo, nel frattempo approdato alla procura nazionale, si è autoproclamato vincitore: ci ha scritto sopra un libro e da due mesi gira in lungo e in largo per l’Italia predicando la sua verità sul mastodontico processo. Ma la partita non è finita. C’è ancora da celebrare l’appello e poi il verdetto della suprema corte di Cassazione. Ci vorranno almeno altri tre anni prima di sapere chi saranno i vincitori e i vinti. Dare per imminente la cattura di Matteo Messina Denaro è una dissimulazione onesta. Ma lo è anche il gioco – pure questo legittimo, per carità – di dare per scontata una verità che ancora certa non è. L’insofferenza di Paolo Guido nasce quasi certamente dal “sovrappiù” che una certa antimafia vuole spesso imprimere alle cose di mafia.