Il professore Aristide Carabillò è l’incarnazione del soave delirio. Negli anni in cui insegnava lingua e letteratura italiana artigliava gli studenti, che pure lo amavano perdutamente, con la lettura obbligata di quella pagina dei Vicerè in cui Federico De Roberto descrive con goduriosa voluttà la tavola imbandita dai principi di Francalanza “in un giorno di festa e di mal digeriti rancori”. Oggi che la scuola non c’è più e ha tutto il tempo per godersi la “regia e conventuale” Palermo, città di angeli e pipistrelli, il professore Carabillò fa quasi ogni giorno un salto all’antica pasticceria Piricò dove da trenta e passa anni due signorine d’altri tempi e d’altri modi apparecchiano per i buongustai il miracolo dei cannoli, dolci siciliani di rara e pericolosissima seduzione. Il professore li vede lì, incolonnati e accatastati con puntigliosa compostezza, freschi di zucchero e canditi. E quando gli si parano davanti con le loro scorze lucide di vino e farina, ha quasi un mancamento. Si consola assaggiandone uno; e naturalmente ignorando le vaporose batterie di cassate al forno e le lunghe filiere di profiterol che ai cannoli fanno da colorato ornamento. E mentre l’involucro, croccante e lussurioso, comincia a cedere – con scricchiolii ritmati dall’ingordigia – alla morbidezza ruffiana e civettuola della ricotta, il professore confessa il suo peccato di gola: “Ho una puntina di diabete e non potrei mangiarlo”, dice. Ma non rinuncia all’ultimo morso. Anzi. Si fa scudo della sua letteraria familiarità col Gattopardo e intrepido annuncia la sfida con le parole di don Fabrizio, principe di Salina: “Lo ammetto. Con questo cannolo organizzo per me quel tanto di morte che è possibile metter su continuando a vivere”.
Manco a dirlo, il rito del cannolo come impasto di amore e morte, come segno di festa e di abbandono, di ricordo e di rimpianto ha avuto la sua epifania universale l’altra sera con la fiction televisiva del commissario Montalbano. Il professore Carabillò, ovviamente, non veniva neppure nominato, ma la scena sembrava scritta da lui, con il contorno delle parole rubate a Tomasi di Lampedusa. Al commissariato di Vigata, boccascena dei racconti scritti da Andrea Camilleri, il capo chiama nella sua stanza i collaboratori, da Augello a Fazio a Catarella. Sono appena tornati dal cimitero dove hanno accompagnato la salma del dottore Pasquano, il medico legale interpretato per diciotto anni da un attore – il formidabile Marcello Perracchio – morto due anni fa. Prima o poi, la fortunata serie televisiva doveva pur giustificare l’assenza di quella faccia asciutta e ironica, amorevole e beffarda. E come spesso succede nei teatri di maggiore sensibilità la fiction ha assorbito la realtà. Al punto che gli sceneggiatori hanno congegnato una puntata nella quale – all’interno di un giallo appassionante per trama e colori – si è narrata anche la morte improvvisa del dottore Pasquano, la cui popolarità era dovuta essenzialmente a due tormentoni: il linguaggio, confidenziale e spregiudicato, con il quale il medico legale si rivolgeva a Montalbano: “Commissario, ma lei è venuto per rompere i cabassisi?”; e i preziosissimi cannoli davanti ai quali – inesorabilmente, voracemente – l’incontenibile Pasquano allentava ogni freno inibitorio.
Quei tormentoni, va da sé, non erano casuali. Servivano a dare leggerezza – levità, preferiva dire Leonardo Sciascia – a scene che, per esigenze narrative, comprendevano cadaveri e morti ammazzati, autopsie e raccapriccianti grumi di sangue. L’omaggio alla memoria di Pasquano non poteva che essere ricondotto al suo carattere di medico allegro e stimato, spiritoso e goloso. E così succede, nella fiction, che il commissario Montalbano, dopo il doloroso rito della tumulazione, riunisce nella sua stanza i collaboratori; li schiera attorno a sé e, con il cuore in gola, apre la guantiera dei cannoli. Comincia di fatto un altro rito, toccante e silenzioso. “Prendete e mangiate”, sembra dire il commissario con la tonalità di un’ultima cena. E tutti si accodano, con gli occhi umidi ma senza lacrime. Parce sepulto, dottore Pasquano, personaggio inventato con maestria e con simpatia. Requiem aeternam, caro Marcello Perracchio, amico e compagno di lavoro. Che la terra ti sia lieve e, perché no, anche dolce. Come i cannoli, i tanti cannoli divorati con allegra avidità, a dispetto di quella “puntina di diabete” che cominciava già ad aggredire il tuo corpaccione di modicano tosto e appassionato.
Chissà cosa avranno pensato gli spettatori della Valtellina o della Val d’Ossola guardando in tv il lutto che ciascun personaggio della fiction stemperava tra la scorza friabile e la ricotta zuccherosa di un cannolo. Chissà che cosa avranno detto i tranquilli e ferragni abitanti di Cogne o di Volpago del Montello vedendo la compassione appuntata sul candito d’arancia o sullo zucchero a velo che inavvertitamente scivolava sul giubbotto dell’ispettore Fazio o sulla divisa del devoto e impappinato Catarella.
“Qui si vive in pieno seicento, il barocchismo, le raffinatezze e l’ignoranza di allora”, scriveva Ippolito Nievo alla madre, Adele Marin, dopo un suo non facile viaggio in Sicilia. Era il 1860. Dopo 160 anni, l’ignoranza di certo è in massima parte scomparsa ma il barocchismo e le raffinatezze probabilmente resistono. Soprattutto di fronte alla morte. Tomasi di Lampedusa, prima di mettere mano al Gattopardo ha scritto un racconto imperniato su una sirena incantatrice che arriva sempre in soccorso dei naufraghi “per mutare in piacere il loro ultimo rantolo”. E non è certo l’invenzione di uno stolido viandante il fatto che in Sicilia la festa dei bambini non è né la Befana né l’Epifania ma il due novembre, giorno dei morti, quando trovano sotto il letto non solo i giocattoli ma anche i coloratissimi pupi di zucchero.
Sembrerà strano anche agli abitanti della Val Gardena, ma tra i siciliani e la morte c’è una perenne complicità teatrale. Forse nell’illusione di trasformare le paure del trapasso in un aldilà non proprio crudele, in un luogo non di tenebra ma di arida luce. Un barocchismo, certo. Ma anche una raffinatezza. Che la fiction di Montalbano ha fatto propria, accompagnando con la dolce morbidezza dei cannoli l’ineluttabile viaggio di un amico verso gli “inferi blandi”.
Del resto era l’unica memoria che il medico legale aveva lasciato in eredità al commissariato di Vigata: i “cabassisi” e i cannoli. E Montalbano non aveva altra scelta. Certo, poteva limitarsi ai funerali, farsi il segno della croce, porgere le condoglianze alla moglie dolente e tornarsene con la sua mestizia in ufficio. Ma Vigata è un luogo geometrico disegnato nel cuore del barocco siciliano, tra Scicli e Modica, tra Noto e Ibla. Proprio nella terra di Gesualdo Bufalino, della diceria dell’untore, delle cere perse e dei ricordi che ciascuno, da quelle parti, sente il dovere di “incuneare come corpo mistico tra tempo ed eternità”. Non è un rito pagano, ma esistenziale. E bisogna farlo, raccomanda il mite Bufalino, fino al punto che la memoria “usurpi e ripeta allucinatoriamente la vita”.
Il cannolo consolatorio non apre le porte del paradiso e non chiude quelle dell’inferno. Non promette resurrezioni. Ma il commissario Montalbano, attraverso la sapiente invenzione di Camilleri, lo ha trasformato nella reliquia di un irreversibile amore verso Pasquano e verso Perracchio, il personaggio e l’interprete. Perché siano una cosa sola – ut unum sint – anche “nello zero sublime dell’assenza”: