Se avesse visto tutto questo, dati cause e pretesti dell’Italia a dir poco cialtrona delle cronache odierne, cosa avrebbe detto Leonardo Sciascia?
Basterebbe ripescare dalle teche Rai l’intervista che rilasciò dopo le polemiche scatenate dall’articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987. Già il titolo: “I professionisti dell’antimafia”, non scelto da Sciascia ma destinato a perpetuarsi come uno slogan, aveva provocato un terremoto. Il “massimo autore civile” d’Italia, il primo scrittore, per di più siciliano, ad avere parlato di mafia chiamandola col suo nome in romanzi come “Il giorno della civetta” o “A ciascuno il suo”, finisce sotto processo come un quaquaraquà qualunque. Giornali, politici, qualche magistrato, quella società civile che si ritiene in trincea nella lotta contro la mafia, tutti lo attaccano. E quei pochi che lo difendono lasciano trapelare una punta di imbarazzo, magari sull’eccesso di garantismo.
Lui replica secco alla cronista: “In nome dell’antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi, è subito accusato di essere un mafioso, o almeno un simpatizzante”. E persevera nell’affermare la sua personale eresia: “Per combattere la mafia lo Stato deve essere in Sicilia con la faccia del diritto, non con una faccia che finisce col diventare un doppione della mafia. Processare la mafia è difficile perché prove lampanti non ci saranno mai. Bisogna sempre collegare con intelligenza gli indizi. Ma questi indizi devono assumere valore di prova”.
Non fa altro, Sciascia, che assumere, come sempre, il problema della giustizia a “problema” per eccellenza “perché ingloba quello della libertà, e della dignità, e del rispetto tra uomo e uomo”. La mafia vive dentro “questo” Stato, dentro le istituzioni. Talvolta, ne è espressione.
Basta e avanza per chiedere – “a futura memoria” è il caso di dire – di installare una statua di Sciascia davanti a ciascun Palazzo di Giustizia. In Sicilia e fuori. Un memento in difesa del diritto, un segno a favore della ricerca accurata e ragionata della verità, un’indicazione di volontà di riscatto contro gli abusi del potere e contro anche l’indifferenza complice di chi sta a guardare senza muovere dito. Ecco, una statua che ricordi a tutti il maestro di scuola di Racalmuto che già nel 1956 scriveva: “Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono… Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse – un colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso”.
Ecco, la fede nella scrittura. Parole come pietre. Per il peso che ciascuna di loro assume nel contesto. Con questa consapevolezza Sciascia vergò nel maggio 1989, sei mesi prima di morire, il suo testamento spirituale indirizzato alla moglie e alle figlie in tre copie uguali, dattiloscritte con la fedele Lettera 22 che teneva sulla scrivania. “Alla distanza i miei allarmi, le mie constatazioni e contestazioni, suoneranno sempre più di verità. Di questa piccola immortalità – nel senso che andrà, anche se di poco, al di là della mia morte – sono certo”.
Non si sbagliava, nel prevedere che sarebbe diventato da lì a poco uno scrittore quanto meno di nicchia in un Paese senza memoria, ormai ad uso a vivere l’illusione del presente senza tenere in conto da dove viene e dove va.
Perfino nel ruolo di coscienza critica della società, di quella italiana e di quella siciliana in particolare, è stato abbondantemente sostituito. Molti gli epigoni, anche tra i parrocchiani di Regalpetra e dintorni. Alcuni magari più accattivanti nella scrittura ma anche più disponibili – sarà una coincidenza, non un indizio – a narrare le magnifiche sorti e progressive dell’industria in Sicilia, entrando di volata nella letteratura con l’epopea de “La bicicletta” per antonomasia.
Non si curava di ciò, Leonardo Sciascia. Nelle sue ultime volontà chiedeva di essere seppellito “nel modo e nell’ora più discreta: senza annunci, senza necrologi, senza discorsi”, non trascurando l’epitaffio per la lapide: “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, a indicare la giusta distanza tra il genere umano, se stesso e il luogo dove dimoriamo. Ai familiari e amici raccomandava “di non perder tempo a difendere la mia memoria, a correggere giudizi o interpretazioni che riguardano la mia vita e i miei scritti, per quanto ingiusti o di malafede possano essere. Ho vissuto semplicemente, senza ambizioni o vanità, senza perseguire alcun vantaggio personale: chi non ha voluto accorgersene, chi si è sentito ferito dalle cose vere che ho detto e ha fanaticamente reagito, non sarà mai in grado di ravvedersene”.
Altro che bici “della legalità” celebrate come vessilli a Palazzo Giustiniani, “piccolo colle” senatoriale di Roma.
L’unica bicicletta su cui Sciascia ha pedalato tutta una vita è quella della giustizia. Un percorso solitario e in salita. Perché “il problema della giustizia, dell’amministrazione della giustizia – afferma in tv – è sempre stato arduo, ma in nessuna società civile, in nessun sistema democratico, ha mai raggiunto il grado di confusione cui oggi è arrivato in Italia”.
Certo, quando lo diceva correvano gli anni Ottanta. Un altro mondo, un’altra storia.