“È da poco tornato dopo un lungo viaggio tra gli Stati Uniti e il Sudamerica”, dice Filippa Lagerback annunciando Alessandro Di Battista a “Che tempo che fa”. Applausi. Stacco su Dibba che scruta l’acquario di Fazio. La prima domanda affonda subito il coltello: “Come è andato il viaggio?” “Bene, grazie, è stata la scelta giusta per me e la mia famiglia”. Ci fa piacere. Siamo pronti a immergerci nel suo flusso di coscienza: “il Palazzo mi viene stretto”, “io e Luigi siamo d’accordo su milioni di questioni”, “la politica si fa fuori dalle istituzioni”, anche se resta difficile immaginarla più “fuori dalle istituzioni” di così, ma sognare non costa nulla. Le domande di Fazio non si sentono, le domande non ci sono, Dibba conduce, Fazio controlla la scaletta, mancano solo le diapositive dal Sudamerica ma abbiamo seguito le dirette social, abbiamo letto i reportage sul “Fatto”. Mezz’ora di intervista senza notizie. Mezz’ora di intervista in cui Dibba dice quello che gli pare, su ciò che gli pare e come gli pare. Mezz’ora in cui spiega che dobbiamo ringraziarlo “se nessuno sfascia le vetrine di via Montenapoleone come a Parigi, perché noi abbiamo incanalato la rabbia”. Grazie Dibba. Mezz’ora in cui chiama il Ministro per le infrastrutture, “Danilo”, spiegando che “Danilo è stato massacrato dal sistema mediatico e dietro c’è sicuramente la mano dei Benetton”; manca solo “un bell’applauso di incoraggiamento a Danilo”, chissà, forse da Floris. Dibba va avanti così senza che mai, neanche per un istante, Fazio senta il bisogno di togliersi il sorrisetto di compiacimento dalle labbra per come sta andando a gonfie vele l’intervista. “Ora andrò in India a studiare Bollywood”, dice con lo sguardo fisso e l’occhio un po’ da matto dei personaggi dei film di Verdone. Un Italo Balbo equosolidale, il Bruce Chatwin del Movimento, trasvolatore, eroe nazionale dei due mondi, testimonial della democrazia diretta, scopritore di ingiustizie della globalizzazione. D’altro canto è da Fazio che si prendono le grandi decisioni di politica internazionale. Qui Veltroni disse che sarebbe andato volontario in Africa. Qui tornò per spiegare come mai non c’era più andato. Siamo dentro una saga che moltiplica personaggi e intrecci, come una soap. Una saga costruita sulle interviste.
Genere intramontabile del giornalismo, motore di ogni talk-show, il “faccia a faccia” con il politico è oggi sparpagliato e declinato in una miriade di formati. Poiché tutto è un’intervista non è più richiesto saperne fare una. Siamo completamente assuefatti a una televisione fatta di interviste tutte uguali, tutte così, costruite per riempire le buche di palinsesti sempre più voraci, che quando vediamo qualcuno in difficoltà (come il povero Giarrusso qualche sera fa da Lilli Gruber) ci sembra un fuori-onda, di sicuro un fuori programma. L’intervista promozionale à la Fazio è ormai la norma. La scorsa settimana toccava a Roberto Fico. Si parte con Giulio Regeni, e “la terza carica dello Stato”, come ripeteranno sia Fico, sia Fazio, per quindici volte nel corso dell’intervista (forse perché non ci credono manco loro) dice che bisogna “andare avanti senza fermarsi mai”. Fazio rilancia per slogan, “senza verità non c’è giustizia”. Tutti d’accordo. Ma non un aggiornamento sulle azioni intraprese, non una notizia concreta sul “lavoro straordinario della procura”, come dice Fico. Fazio comincia le domande con “posso chiederle se” o “non la voglio mettere in difficoltà”. Divide l’Europa in sovranisti e in quelli che hanno fatto l’Erasmus, “lei che è uno dei giovani europei che ha fatto l’Erasmus in Finlandia”. Immaginiamo Fico in Finlandia, come in un film di Checco Zalone. Cosa bisogna fare per l’Europa? Per la terza carica dello Stato bisogna andare avanti perché “ciò che si ferma è perduto”, un po’ Eraclito, un po’ Casa Pound. Quando tocca ai migranti, Fico parla come se fosse all’opposizione o nella redazione di “Internazionale” o al catechismo: “aiutare sempre, accoglienza, principi, valori, esseri umani”, quindi denuncia la mancanza di una diffusione delle “storie stupende” che stanno dietro l’immigrazione. Lavori straordinari, storie stupende, andare avanti senza voltarsi mai, e ci sei, adesso tu.
Le interviste sui giornali riprendono le interviste dei talk che inseguono le dichiarazioni sui social. Interviste truccate, interviste concordate, interviste “doppie”, come quelle delle “Iene”, interviste rubate, interviste di governo, un nuovo scintillante genere della teledemocrazia rilanciato dal trionfo del populismo. Si entra in empatia con il politico giallo-verde perché adesso rappresenta la gente, mica gli interessi dei partiti, incarna la rabbia della piazza e la piazza in televisione va sempre coccolata. “Ci dovete sostenere perché quando attacchi l’establishment te la fanno pagare”, spiegava sempre Dibba qualche giorno nel suo tour in Abbruzzo. “I media tentano di distrarci con articoli cattivi, i media ci vogliono dividere, le interviste sono interrogatori”. Come il terribile interrogatorio a Giuseppe Conte andato in onda su “Povera Patria”, RaiDue, seconda serata: “Ci sono tutte le premesse per un bellissimo 2019”, diceva il premier intervistato da Alessandro Poggi, “l’Italia ha un programma di ripresa incredibile, c’è tanto entusiasmo e tanta fiducia da parte dei cittadini, c’è tanta determinazione da parte del governo, andiamo tutti d’accordo, non litighiamo, ci confrontiamo” e saranno capricorno e sagittario a guidare la ripresa. Intervista scomoda. Confronto all’americana. Come gli interrogatori spietati di Floris, Formigli, Giletti, come le assurde illazioni, i tecnicismi un po’ feticistici di Lilli Gruber a “Otto e Mezzo” che costringono Laura Castelli a indicibili, strazianti supercazzole sul reddito di cittadinanza, forse la vera “intervista impossibile” del nostro tempo. L’intervista come proliferazione incontrollata di parole in libertà, chiacchiericcio di fondo che riempie i palinsesti per stare al ritmo dei social e trasformare il nulla in notizia. Se la rete ha “il video che ha commosso il web”, la Tv ha “l’intervista che avete già sentito un milione di volte”. Ciò che nessun fact-checking del mondo potrà mai fermare, di sicuro da noi, è questo bisogno compulsivo di parole, racconti, polemiche vuote, smentite e anacoluti. Non siamo dentro la fine dell’ideologia, siamo dentro il tracollo epocale della parola politica, rilanciata e moltiplicata all’infinito dentro una nebulosa che supera, annulla e sintetizza tutte le opposizioni del linguaggio (vero-falso; emotivo-razionale; slogan-argomentazione; pubblico-privato). Dalla democrazia dei partiti alla democrazia dell’intervista ciò che cambia è la vaporizzazione della parola politica, quindi, inevitabilmente, si complica anche la funzione critica del giornalismo. I giornali non si leggono perché i giornali si fanno sopra le interviste televisive o le bacheche di Facebook. Come si fa informazione sulle parole vuote?
Sulla crisi di senso del lessico politico in Tv sono state scritte intere biblioteche. Si è fatto ricorso a tutte le dovute specificità nazionali del caso: la predilezione per il melodramma e il gusto per la commedia, l’amore sconfinato per la fumisteria del linguaggio astratto, vuoto, impenetrabile. Il tema appare però inesauribile. Più di altri generi televisivi, l’intervista è il riflesso delle trasformazioni del rapporto tra politica e televisione, un rapporto che da noi muta per sempre il 19 settembre 1977, giorno in cui l’onorevole e Presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti, è invitato nella trasmissione di Maurizio Costanzo, “Bontà loro”. Gli italiani ascoltano il ritratto umano e privato del più influente e controverso uomo politico della storia del paese che ora se ne sta lì, seduto in salotto insieme agli ospiti del mondo dello spettacolo, tra cui il press agent Enrico Lucherini. Non è solo un’immagine insolita, distante anni luce dall’ingessatura istituzionale della “Tribuna politica” di Jader Jacobelli. È il registro discorsivo del conduttore che innesca un radicale, netto cambio di genere: “non più giornalismo, ma intrattenimento, non più confronto ma conversazione, non più interviste ma chiacchierate” (come scrive Edoardo Novelli nel suo “La democrazia del talk-show. Storia di un genere che ha cambiato la televisione, la politica, l’Italia”). Costanzo lascia sullo sfondo la politica e cerca una sintonia con l’ospite, anche se per tutto il tempo dell’intervista Andreotti resterà rigido, contratto, quasi immobile, una specie di marziano con la testa enorme e gli occhiali, incollato al divano. Costanzo lo sollecita, lo invita all’aneddoto, come quello presto divenuto celebre della proposta di matrimonio fatta alla moglie passeggiando al cimitero durante un funerale di un amico comune. Quell’intervista è studiata ancora oggi come uno spartiacque. Da lì in poi la parola politica perde peso, entra nella dimensione della conversazione a due, l’attenzione si sposta dal partito al leader e dal leader alla persona. Il passo successivo dei “faccia a faccia” di Giovanni Minoli a “Mixer” sarà l’avvio di un confronto politico ormai è ricalcato sui tempi sincopati del linguaggio televisivo. I politici intervistati da Minoli devono avere la stessa prontezza, gli stessi riflessi accelerati dei concorrenti di un quiz. La conversazione si gioca sul ritmo evocato già dalla sigla del programma. Intervistato e intervistatore sono ormai sullo stesso piano. L’intervista come approfondimento, confessione e lento avvicinamento all’oggetto di indagine, l’intervista alla Zavoli, l’intervista alla Biagi, è ormai rimpiazzata da uno scontro diretto, dalla volontà di mettere l’interlocutore a disagio, intrappolato in una stanza degli specchi dove si riverbera il suo primo piano gigante. Arriverà il tracollo dei partiti, tangentopoli, arriverà la gente, l’intervista in collegamento con la piazza inferocita, la società civile, “Milano Italia”, Gad Lerner, Santoro, Funari. L’esito ultimo e l’approdo poetico-politico-civile della parola santoriana non poteva che essere l’intervista impossibile di “M”. L’intervista con la Storia. Santoro che incalza Hitler, Buscetta, Aldo Moro. Santoro che intervista Stefania Rocca vestita da Oriana Fallaci che sembra Ozzy Osbourne a “Tale e Quale Show”. “Vedere la televisione, ascoltare un’intervista televisiva, non è più un’esperienza prevalentemente informativa, ma una forma di intrattenimento”, dice Anna Bisogno che insegna Storia della radio e della televisione all’Università di Roma III, “l’informazione è sempre meno trasmissione di notizie (la selezione e il racconto di alcuni accadimenti ritenuti importanti o notiziabili) e sempre più flusso di comunicazione che trabocca da questo ristretto contenitore per ibridarsi e congiungersi con altri aspetti della vita di oggi. In particolare, con lo spettacolo. Si pensi a “Porta a Porta” cos’è? Una rubrica giornalistica? Uno spettacolo di varietà in cui alcune persone assistono ad un duello, spesso tra politici? Una trasmissione dove si vedono personaggi politici e vip vari che parlano del loro privato, magari del modo in cui cucinano pietanze agli amici?” Ovviamente non si tratta di rimpiangere le inchieste di Zavoli o Biagi, perché erano le inchieste e le interviste di un’altra Italia, di un’altra politica, di un’altra televisione. Ora è con questa cosa qui che abbiamo a che fare noi. Con un sottofondo, un cicaleccio permanente che non esige e non chiede attenzione ma detta comunque l’agenda politica. Un “regime conversazionale”, come si dice nella saggistica sul tema, che è stato portato in trionfo dalla reality tv e che ormai da tempo si è saldamente intrecciato alla parola politica dei talk-show. Oggi i video di cazzeggio di Matteo Salvini sono indistinguibili da quelli in cui rilascia una dichiarazione. Le interviste televisive che carica sulla sua pagina Facebook sono identiche ai suoi video-selfie. Come quella di Sky Tg24 di quest’estate, rilasciata dentro uno stabilimento, con le palme, i lettini, Salvini sbracato in sandali e bermuda; “la mia intervista di poco fa a SkyTg24, a me è piaciuta! Guarda, commenta e condividi!”. La “coscienza narcisistica” e “l’orgoglio di casta” evocati da Giuliano Ferrara in un appassionato articolo in difesa del giornalismo passano anche da qui, dalla ridefinizione dei confini tra intervista, comunicato stampa, marchetta e pubblicità.