Quando Roberto Alajmo arrivò alla guida del Teatro Biondo, nel 2013, poco mancò che si organizzasse una festa di piazza, che in via Roma s’inalberassero stendardi, che in cima all’edificio primonovecento voluto da Andrea Biondo sventolassero bandiere. Una, ideale, in realtà sventolava, quella della “libertà”. Insignito della carica di direttore artistico dal sindaco Orlando, Alajmo, giornalista Rai, ma soprattutto intellettuale di moderno corso, scrittore di rodato successo, polemista ironico, bon vivant e perfino charmant, aria da scettico blu ma non troppo, si insediò dopo il quasi quarto di secolo carrigliano (sì, d’accordo, c’era stato – in mezzo alle due ere di Pietro Carriglio – Roberto Guicciardini, il conte fiorentino, teatrante della più bell’acqua, che i maligni però volevano longa manus del fondatore dello Stabile che sembrava vigilasse dalla sua casa romana), ma insomma Alajmo incarnava il rinnovamento, il cambiamento, lo svecchiamento. Via Roma 258 come il Palazzo d’Inverno.

Niente feste di piazza ma accorsero in tanti ad abbonarsi, in tantissimi: quasi un atto di fede, una dichiarazione politica, più un tesseramento che un abbonamento, soprattutto la città dell’intellighenzia progressista transgenerazionale. Alajmo infatti era stato chiaro: aveva dato il “chi è di scena” a tutti (o quasi) i teatranti cittadini. A tutti gli esclusi dell’era Carriglio, cioè, quelli che non avevano avuto asilo sul palcoscenico del Biondo. Chiamò a raccolta una folla, un autobus della linea 101 all’ora di punta. Il colpaccio con Emma Dante, da artista semi-esule ad artista residente: spettacoli da produrre o coprodurre, certo, ma soprattutto la direzione della scuola di teatro. E per restare in tema di nomi da spendere sul mercato, ad arricchire il bouquet assoldò anche l’amico di sempre Roberto Andò. E Luigi Lo Cascio e Vincenzo Pirrotta. E poi il “ripescaggio” di Roberta Torre (la sua stramba “Aida” pare fu molto dispendiosa), l’ingresso trionfale di Mimmo Cuticchio e dei suoi pupi, il ritorno di Lollo Franco, il “recupero” di Davide Enia (che uno spiraglio di ospitalità aveva trovato anche con Carriglio anche se i due continuavano a guardarsi in cagnesco), l’acquisizione del duo Piparo-Licata e della loro Palermo poetico-canagliesca, il riposizionamento di Claudio Collovà che era stato messo a latere, la riacquisizione post-mortem di Franco Scaldati affidato al suo orfano-erede Melino Imparato e alla supervisione artistica di Franco Maresco già da tempo vedovo Ciprì. Più numerose altre piccole pedine sparse qua e là.

Un successone, “se ne carétte o tiàtro”, come diceva il buon Peppino De Filippo. Ma il teatro, dopo la prima dirompente stagione alajmiana, rischiò, se non di cadere (stavolta non travolto dagli applausi), di scivolare. Forse s’era speso troppo, forse conveniva fare più le formiche che le cicale. E così si va al risparmio, anche sul cartellone, troppi spettacoli “due camere e cucina”, si azzera la stagione collaterale alla Sala Strehler e il “tutto esaurito” diventa “tre quarti esaurito” o poco meno. Cominciano grane sindacali (l’ultima è di pochi giorni fa e riguarda il servizio di sala), fa il suo esordio la cassa integrazione per 12 dipendenti (rientrata dopo 5 mesi), il ministero boccia una prima volta (il secondo “no” da Roma un paio di mesi fa) il “toc toc” con il quale Alajmo bussa per far sì che il teatro palermitano diventi “stabile di interesse nazionale” (con quel che ne consegue di quattrini pubblici in più). E’ qui che si consuma il dramma e il main sponsor Orlando si trasforma in “nemico” e chiede conti e ragioni all’uomo che ha voluto al comando, lo critica con pesantezza, in pratica lo sfiducia, lo spinge alle dimissioni, per fare poi marcia indietro assordato dagli alti lai degli intellettuali locali e di alcuni nazionali. L’addio del direttore, già vergato, è bell’e ritirato, anche se passano una quindicina di giorni di “annacamento”.

Il vento ha ripreso a soffiare dalla parte giusta nelle ultime due stagioni, non proprio con l’intensità che si sperava ma almeno non è stato avverso, quanto meno a presenze: qualche titolo più popolare (compreso il recente “Liolà” appaltato alla coppia Ovadia-Incudine, forse fin troppo popolare per uno di palato raffinato quale Alajmo, ma tant’è, bisogna pur concedere qualcosa a papille e pupille meno esigenti), qualche ospitalità un po’ più “corposa” per soddisfare le fregole divistiche di una certa fetta di pubblico, il ritorno della nuova drammaturgia al Ridotto.

E il futuro? Alajmo intanto il 1 giugno presenta la nuova stagione. Potrebbe essere l’ultima che firma dal momento che il suo mandato scade a novembre. Tornerà alle sue amate carte d’autore (sempre fortunatissime, in verità, in fatto di successo) invece che restare a quelle fredde, burocratiche e certamente ostiche dei borderò e dei bilanci? Oppure si siederà nuovamente alla sua scrivania di redattore ordinario Rai in viale Strasburgo? In questo secondo caso, potrebbe cercare una collocazione acconcia magari traslocando a Roma, in una rete che forse gli piacerebbe (e gli si confarrebbe) molto, quella di Radio3. Oppure, nel caso dovessero riconfermarlo al Biondo e volesse riaccettare, potrebbe continuare a dare il “chi è di scena” scivolando, tra velluti e riflettori, verso la pensione.