File interminabili di giapponesi, spagnoli, tedeschi davanti al Musée Yves Saint Laurent di Marrakech, aperto poco più di un anno fa su progetto dello Studio KO e mandato imperioso del compagno di una vita del grande stilista, Pierre Bergé, scomparso a sua volta a poche settimane dall’inaugurazione: “Voglio qualcosa di forte, marocchino, contemporaneo e soprattutto senza compromessi”.
Ne è nato un palazzo contemporaneo e al tempo stesso classico, color ocra, con una cornice di “pizzo” in mattoni e un grande atrium decorato dal simbolo storico della maison, tappa obbligata per i selfie. Dall’apertura, il museo ha una media di 1600 visitatori al giorno, cifra che lo rende la singola meta più visitata della città e, insieme con il celeberrimo giardino botanico Majorelle, che la coppia curava dopo averne rilevato l’eredità dal pittore Jacques Majorelle, che l’aveva creato, negli anni Trenta. “Era il 1966 quando Yves scoprì Marrakech», raccontava Bergé, “rimase talmente commosso dalla città che decise di acquistare una casa e tornarci regolarmente”.
Più che un museo, è l’espressione architettonica di un genio che, oltre a Marrakech, amava Proust, Matisse a cui si ispirano le vetrate colorate nel patio e il cinema. Il pubblico si aggira reverente, qualcuno si commuove: è la forza del mito e la coscienza di avere di fronte a sé l’opera di qualcuno che amava le donne al punto di adattare alle loro forme e alla loro vita l’abbigliamento maschile, senza farne delle caricature. Un amico, che ha studiato psicoanalisi alla scuola di specializzazione dell’università di Trieste prima di rientrare a Marrakech, dice che i “numi” laici e occidentali della città sono due: Saint Laurent, e “la vostra Marta Marzotto”, che ci insegnò a trasformare le djellaba in capi alla moda, con un’energia e una generosità straordinarie”. La sua casa nella medina è ancora lì, intoccata. Passando, la gente del quartiere dice qualcosa, presumiamo di carino, alla sua memoria.