L’anno della commissione regionale Antimafia si è chiuso con un successo non marginale. Aver restituito una porzione di verità su quanto accadde dopo la strage di via D’Amelio, in quello che è considerato il più grande depistaggio della storia d’Italia. “Che un frammento di verità arrivi adesso da una istituzione politica siciliana, e non dalla sentenza di un tribunale, è motivo di orgoglio – aveva detto a caldo Claudio Fava, presidente della Commissione e deputato dei Cento Passi -. Che siano trascorsi 26 anni senza trovare il coraggio di formulare talune domande e pretenderne le risposte è motivo di smarrimento”.
Perché quello che manca, in questo quarto di secolo tinto di giallo, sono le voci di alcuni attori. Non i protagonisti, ma i comprimari. Che avrebbero potuto dare un altro senso alla storia e alle numerose domande che Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, non ha mai smesso di porsi: “La relazione che abbiamo approvato in Antimafia restituisce un’evidenza, questa sì, che ha a che fare con noi siciliani: molti capirono, molti sapevano, molti tacquero. Accanto alle “menti raffinatissime” che organizzarono assieme a Cosa Nostra la strage e il depistaggio, c’è una folla di minori (magistrati, poliziotti, funzionari dei servizi, capi e vicecapi di varia natura, prefetti, ministri…), tutti in varia misura colpevoli perché tutti consapevoli”.
Presidente Fava. E’ più la soddisfazione per aver svolto a dovere questo certosino lavoro d’inchiesta o l’amarezza per come sarebbe potuta andare?
“Sono entrambe presenti. Credo sia importante che un’istituzione politica, per una volta, si assuma una responsabilità e porti a termine un lavoro, un’indagine, senza delegarlo agli esiti. Ma c’è anche amarezza perché ci si rende conto che in questa e in molte altre vicende è viva la sensazione che molti sappiano e preferiscano voltarsi dall’altra parte”.
Si spieghi meglio…
“Molti erano perfettamente consapevoli che esistevano forzature sul piano procedurale e giuridico. Se si fossero fatte rilevare, avremmo potuto guadagnare qualche anno e risparmiato qualche processo e qualche ergastolo. Invece, di fronte a vicende manifestamente irregolari – come aver delegato la direzione delle indagini al SISDE, o non aver voluto credere alle ritrattazioni di Scarantino – in tanti sapevano e in tanti hanno scelto di accanirsi su un’ipotesi investigativa totalmente sballata. Attorno ai responsabili apicali di questa vicenda ci sono numerose omissioni e reticenze”.
Fiammetta Borsellino ha criticato aspramente alcuni magistrati, come Di Matteo e la Boccassini, che non si sono presentati in audizione. E’ un cattivo segnale?
“La supponenza è un cattivo segnale. E’ come se avessero fatto passare il messaggio che “ne abbiamo già parlato…”. Non muovendoci nel perimetro dell’azione penale, di un processo, ma su un’indagine di responsabilità politica e istituzionale, il nostro margine di manovra era molto più ampio. Chi si è sottratto avrebbe potuto ricevere molte domande e dare delle risposte per la prima volta. Così non è stato. Mi dispiace che Di Matteo dica di non essere venuto perché si era già presentato all’Antimafia nazionale dove c’era Fava. Ma io in questo caso rappresento un’intera commissione che lo ascolta. Ed è all’intera commissione che lui si rivolge”.
E’ riuscito a immedesimarsi per un momento nel dolore di Fiammetta Borsellino?
“Non ho visto tanto la sofferenza, quanto la sua determinazione. Che è la risorsa ultima che hanno i parenti, i sopravvissuti. Spesso si crede che il tempo finisca per smussare, addolcire, ammansire, intiepidire. E mi accorgo dello stupore con cui alcuni giudicano questa donna che, dopo 26 anni, è ancora qui a fare domande. Io penso sia proprio questa la forza. Non quella di continuare a raccontare il proprio dolore, ma pretendere risposte. Alla fine questa caparbietà verrà premiata, perché nel contesto della storia la verità prima o poi tracima sempre”.
Tra chi ha snobbato le sue audizioni c’è anche l’ex governatore Crocetta. Che, a quanto pare, del sistema Montante rappresentava – scelga lei in che modo – un tassello non secondario.
“C’era un mondo ampio, vasto e trasversale di cui Crocetta era un furbo esecutore. La sua candidatura, la sua elezione e il suo consenso erano legati al fatto che fosse il punto di riferimento esecutivo di questo sistema, ma la cabina di regia non era alla sua altezza”.
Cosa emerge dall’indagine sul sistema Montante?
“Il dato di cui parlavo all’inizio, che purtroppo è una costante. C’era una consapevolezza ampia, trasversale, condivisa. Taluni lo subivano, altri lo utilizzavano e cavalcavano. Per qualcuno era occasione di carriera, per qualcun altro di preoccupazione e di timore”.
Una rivelazione importante l’ha offerta Musumeci facendo il nome dell’ex senatore Lumia.
“Che Lumia avesse un suo spazio fisico a fianco del presidente Crocetta e che esercitasse una funzione di governo parallelo, lo sapevano anche le pietre. Però era considerato un pezzo del panorama, una cosa naturale. Una sorta di pedaggio da pagare. Quello di Montante era un sistema di potere parallelo, tenace, unito che, fin quando non è stato smascherato dall’autorità giudiziaria, continuava a fare i propri comodi”.
Dove si estendeva il suo margine d’influenza?
“Aveva una sua capacità di penetrazione estremamente raffinata, che non si limitava a gestire macrosistemi e grandi decisioni, ma entrava nel dettaglio di tutti i passaggi, nell’intera filiera di comando. Ho visto liste di proscrizione, funzionari ritenuti maneggiabili che venivano cacciati via. Alle audizioni ho visto piangere dei dirigenti perché per la prima volta, dopo anni, qualcuno chiedeva loro cos’era accaduto… Altri, invece, hanno fatto carriera. Un dirigente dell’assessorato alle Attività Produttive, sotto dettatura di Montante, si impegnava a fare e non fare a promuovere e a bocciare. Non era un potere fine a se stesso, ma un sistema che produceva convenienze sul piano elettorale e personale. Questo è stato a lungo tollerato: e i responsabili non sono due, tre, quattro…”.
Un altro sistema è stato smantellato a Catania e faceva riferimento all’imprenditore Mario Ciancio.
“Rischio di sembrare ripetitivo, ma tutti sapevano che Ciancio utilizzava il giornale per promuovere carriere o per stopparne altre. Per assecondare i propri interessi imprenditoriali, economici, edilizi, per pretendere e ottenere modifiche ai piani regolatori, o per garantire elezioni o bocciature di candidati sindaci. Ma tutti ritenevano che anche lui facesse parte di questo perimetro di impunità, rispettata e ossequiata. Credo di essere stato l’unico dirigente politico, con incarichi di un certo rilievo, a non rendere omaggio negli studi di Mario Ciancio. L’unico che abbia ritenuto che fra i doveri che appartenevano alle mie funzioni non rientrava quello di andare a scappellarsi di fronte a lui. Gli altri pensavano fosse un omaggio dovuto, e lo hanno fatto in cambio dell’intervistina di rito.
Qual è l’elemento più grave della gestione Ciancio?
“Aver umiliato un giornale, affamato una generazione di giornalisti, portato i soldi all’estero. Questa è stata la cosa più volgare da un punto di vista morale. Se io fossi un giornalista di quel gruppo editoriale sarei molto arrabbiato. Scoprire che questo giornale è stato utilizzato per scopi imprenditoriali personali, che si è reso disponibile alla pervasività della mafia, che si licenziavano giornalisti da una parte e si riempivano contocorrenti in Lichteinstein dall’altra, è una cosa assai grave”.
Il ministro Salvini ha detto che nel giro di pochi mesi, al massimo qualche anno, sterminerà la mafia. Quanto c’è di ambizioso e quanto di strumentale in questa affermazione?
“Io penso che un ministro dell’Interno, o un presidente del Consiglio, o un governo in generale, tenta di dire che fra i suoi obiettivi c’è quello di liberarsi dalla mafia. Ma non deve farne un atto di propaganda. Deve provare ad assumersi questo impegno e farlo seguire dai fatti. Credo che a monte di quello che è un impegno naturale, ci sia una somma di frasi che corrisponde poco alla realtà. Ma questo non per demerito di Salvini. Non è colpa sua se la mafia ha una presenza economica e finanziaria asfissiante nel nostro Paese. Una straordinaria capacità di modernizzarsi e di adeguarsi ai tempi che corrono. Prima si investiva in terreni e in case, oggi in aziende e fondi sovrani. Intercettare questo cambiamento dipende dalla raffinatezza degli strumenti d’indagine. Oggi l’agenzia dei beni confiscati, con tutta la buona volontà di chi la gestisce, è totalmente inadeguata. Ci sta bene che un ministro dica che si vuole liberare dalla mafia il più presto possibile, un po’ meno che questo diventi argomento rituale di propaganda e di selfie”.
Il decreto sicurezza può costituire un argine al fenomeno mafioso?
“Ci sono delle cose positive. Ma non si coglie il segnale materiale e simbolico che sta dietro la possibilità di vendere all’asta ai privati i beni immobili confiscati e non utilizzati per due anni. Abbiamo la certezza che, attraverso meccanismi assai collaudati dalle mafie, questi beni, per interposta persona, possano rientrare in loro possesso. Confiscare e recuperare i beni per usi sociali è una sfida civile e morale”.
Continua a stringersi il cerchio attorno al più grande latitante in circolazione. Cosa rappresenterebbe la cattura di Messina Denaro?
“La rottura del meccanismo di consenso che si è costruito attorno a lui. Il consenso di professionisti, studi di progettazione, studi notarili, ma anche di logge massoniche che hanno una loro efficacia. Lo scioglimento del comune di Castelvetrano è stato archiviato troppo in fretta. Invece andrebbe letta la relazione dei commissari per capire che in quel comune la mafia non si presentava con la sua faccia cattiva, ma con un suo sguardo più suadente. A Castelvetrano c’era la più alta concentrazione italiana di logge massoniche. La mafia ha capito che per sopravvivere deve creare consenso. All’omertà ha sostituito la capacità di farsi percepire come convenienza”.
Parlando di politica. Come valuta il tentativo, da destra e da sinistra, di costruire un campo nuovo per arginare il populismo di Lega e Cinque Stelle? La Sicilia, in questo senso, potrebbe diventare un laboratorio.
“Le politiche sovraniste e populiste non si fermano per sottrazione, ma per addizione. Bisogna proporre delle politiche alternative, che abbiano una loro capacità di seduzione. Tu non vinci le elezioni perché dici che non sei populista o sovranista. Sarebbe più utile presentarsi al mondo intero dicendo di aver fatto delle sciocchezze. Provando a ricostruire un rapporto reale con la tua gente. A partire da questo ci si misura con il consenso. Io non ho sentito parole di questo tipo da nessuno dei candidati alla segreteria del Partito Democratico. Non deve cambiare il nome del segretario, ma l’anima stessa del progetto politico. Non mi sembra ci sia quest’anima nemmeno nei grandi rassemblement che hanno come unico punto all’ordine del giorno fare da filtro al progredire delle armate populiste”.
Dopo un anno di mandato, è d’obbligo un giudizio sul governo Musumeci.
“Potrei mutuare la battuta di un’altra epoca e dire: Musumeci chi? Io conosco benissimo il mio amico Nello Musumeci, non conosco il governatore Musumeci. Nessuna delle esternazioni rivolte agli elettori in campagna elettorale è stata mantenuta, trascinata nella discussione politica in aula né al voto attraverso proposte di legge. Al posto di Musumeci non mi limiterei a dire che manca la maggioranza. Andrei in aula, mi presenterei con delle intenzioni concrete e su queste mi misurerei. Se non venissero accettate dalla maggioranza del Parlamento, ne prenderei atto e me ne andrei”.