“Berlusconi? E’ il male assoluto”. Leggi le scempiaggini di Alessandro Di Battista, detto Dibba, e un primo istinto ti spinge a chiederti su quali ragioni possa fondarsi un moralismo così estremo, così sprezzante, così fanatico. La solennità dell’insulto potrebbe anche farti credere che stai sfogliando una pagina di Giansenio, ove ogni cosa emana un’idea di peccato e di perversione; o un saggio di Nicolas Malebranche che per contrastare il teatro delle passioni non concepiva altra arma se non quella del dogma e del furore. Ma la tentazione di assegnare comunque uno sfondo al pensiero del Dibba, per grazia di Dio, non dura più di un minuto secondo; giusto il tempo di accorgerti che anche il dioscuro dei Cinque Stelle è stato colpito dalla sindrome del Guatemala, di quella lontana caverna del mondo dove cinque anni fa trovò ispirazione e ospitalità un altro campione del giustizialismo nostrano: Antonio Ingroia. Un magistrato d’assalto che, per preparare la sua discesa in campo e presentarsi alle elezioni nazionali del 2013 come candidato premier, si trasferì sotto l’egida dell’Onu in America centrale; arrivato lì fece finta di accantonare la toga e cominciò a offrire le sue interviste a destra e manca al solo scopo di illustrare all’universo mondo il nerofumo di un uomo, anzi di un criminale, chiamato Silvio Berlusconi.

Non gli andò benissimo. A parte lo zero virgola contro il quale andò a schiantare le sue ambizioni politiche, oggi l’ex magistrato Ingroia, amato e monumentalizzato dall’indomito popolo dei moralisti, è drammaticamente finito tra i moralizzati: la procura di Palermo lo accusa di avere scialacquato i soldi di un’azienda della Regione in alberghi di lusso e in gite in barca con la sua fidanzata. Accuse tutte da provare, per carità. Ma fondate su indizi tali da costringere la polizia giudiziaria a mettere sotto sequestro i suoi conti in banca e una sua villa in quel di Calatafimi.

Certo, Ingroia non è il Dibba. Le loro storie sono lontane; non si possono accostare e non si possono neppure sovrapporre. Le accomuna solo la sindrome del Guatemala, paese che il gemello di Luigi Di Maio sta per raggiungere con il preciso intento di affinare tra quelle rovine e quelle spiagge, come fece Che Guevara, la sua vocazione rivoluzionaria.

Già, ma che cos’è il male assoluto? Nel formulare questa domanda potrebbe anche ripizzicarti l’istinto di consultare i grandi libri, di andare a spulciare tra le pieghe di un saggio o di un trattato, per capire se Dibba, nel lanciare la sua apodittica scomunica nei confronti del Berlusca, si sia ispirato al mysterium iniquitatis di San Paolo o alle considerazioni morali di Rochefoucauld. Ma anche questa tentazione non va oltre il minuto secondo; giusto il tempo di leggere il commento molto puntuale di Goffredo Buccini sul Corriere della Sera, giornale generalmente non ostile al movimento di Beppe Grillo. Il corsivo è impietoso. Il male assoluto, ricorda Buccini, fu del nazismo; fu di quella “buonafede nazista” che spinse 18 medici del Terzo Reich ad assassinare, con una iniezione letale 56 bambini ebrei, sostenendo che quei bambini non erano esseri umani ma semplici “elementi biologici degradati”. Il male assoluto, il vero inganno del demonio fu quel crimine contro l’umanità. Le scemenze di Alessandro Di Battista, no. Non c’entrano nulla: rappresentano solo, conclude Buccini, “il senso tragico delle parole usate a vanvera”.
Ma chi può impedire al Dibba di giocare con le sue banalità? Nessuno, ovviamente. E’ un cittadino, definizione a lui tanto cara, e come cittadino di questo regno ha anche il diritto di parola; di qualunque parola, anche la più devastante, anche la più sfrontata.

Il guaio è che sulla delinquenza di Berlusconi – tema usato e abusato per oltre vent’anni da tutti i moralisti che affollano il palcoscenico della politica – si esercitano anche alcuni magistrati ai quali i rigori dell’ordinamento dovrebbero quantomeno consigliare una certa cautela, una certa distanza, una certa terzietà. Domenica scorsa, al meeting grillino di Ivrea, una requisitoria contro Berlusconi è stata pronunciata, durante un pubblico comizio, da Antonino Di Matteo, magistrato della Direzione nazionale antimafia e successore di Antonio Ingroia al timone del maxi processo palermitano sulla fantomatica trattativa tra i boss di Cosa nostra e alcuni pezzi, manco a dirlo, deviati dello Stato. Per meglio rappresentare il ritratto di un Cavaliere scellerarto e inaffidabile, il magistrato Di Matteo – così caro al popolo dei Cinque stelle da essere stato indicato da Beppe Grillo come possibile ministro della Giustizia – ha sventolato sentenze di Cassazione come fossero verità sugellate direttamente dalla mano di Dio. Qualche ora dopo gli ha replicato Giorgio Mulè, ex direttore di Panorama, eletto il 4 marzo alla Camera per Forza Italia, al quale non è sembrato vero ricordare a Di Matteo “che non sono affatto rari i casi di macroscopici errori commessi dalla Cassazione: lui ne è diretto testimone avendo partecipato e avallato l’inchiesta di Caltanissetta che portò alla condanna definitiva all’ergastolo di nove innocenti per la strage di via D’Amelio”, quella dove furono trucidati il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. “Parliamo di nove innocenti rimasti per diciotto anni in carcere, con conseguente scempio di verità e giustizia”.

Al di là delle repliche e delle controrepliche – Di Matteo ha insistito nel ribadire di avere avuto in quel processo maledetto un ruolo marginale – la risposta di Mulè ha finito per sollevare una questione certamente non secondaria: può una sentenza della Cassazione identificarsi con la verità? E, conseguentemente, può una verità giudiziaria diventare l’arma assoluta e definitiva della lotta politica?

Le ragioni di Mulè – qui si parla di ragioni politiche – muovono dal principio, tanto controverso e tanto dibattuto, che di fronte a ogni sentenza possa essere avanzato il dubbio di un errore giudiziario. Principio che i giudici, in quanto tali, tendono sempre a esorcizzare, anche quando l’errore passa dalle loro mani: “Esercitano una professione difficile e di quotidiana inquietudine”, spiegava Leonardo Sciascia a proposito del calvario inflitto a Enzo Tortora. “E sarebbero inibiti ad esercitarla se non riuscissero a respingere ai margini, in un marginale baluginio della coscienza, la preoccupazione dell’errore”.

Ma si è quel che si è. Seppellita la cultura del dubbio, Dibba ha il suo dogma e Di Matteo ha il suo furore. Uno ha la sindrome del Guatemala, l’altro coltiva il mito delle manette come unico strumento di salvezza per un popolo afflitto da mafia e corruzione. Uno straparla di male assoluto, l’altro straparla di giustizia che non c’è. Uno predica onestà-tà-tà, l’altro gli fa eco invocando legalità. Una legalità totalizzante: col ritorno al rito inquisitorio, con l’estensione delle intercettazioni telefoniche, con l’allargamento all’infinito dei termini di prescrizione.

E’ il cuore grillino, bellezza! Se fosse un romanzo tra i protagonisti troverebbe spazio anche il dissennato poliziotto di Graham Greene che nel suo delirio purificatore urlava: “Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali ne possano pubblicare”. Muoia Berlusconi e tutti i filistei.