Diciamocelo con franchezza. Matteo Messina Denaro è diventato il santino mediatico dell’antimafia.
Non c’è arresto o sequestro che non venga sbandierato come l’ennesima tappa di un cerchio che si stringe ogni giorno di più. Stringi, stringi ma il boss resta latitante. L’ultima confisca ha colpito nei giorni scorsi gli imprenditori Francesco e Vincenzo Morici, padre e figlio. Allo Stato sono passati beni per 21 milioni di euro.
Delle due l’una: o il cerchio era larghissimissimo oppure non è vero che si stringa per come si dice. In compenso senza il capomafia di Castelvetrano il lavoro investigativo perde l’appeal necessario per finire in prima pagina sui media nazionali o in onda durante i telegiornali delle 20.
Senza il boss di Castelvetrano di mezzo le notizie restano confinate alle cronache locali dal deserto Sicilia. Perché di deserto si tratta. Negli ultimi anni sono state sequestrate e confiscate centinaia di imprese edili, grandi alberghi, oleifici, strutture sanitarie, aziende vitivinicole, impianti di energie alternative, cooperative varie. Dov’è l’economia sana nel Trapanese? Boh.
Molti dei beni apparterranno davvero a Messina Denaro, altri sono di sicuro dei suoi vecchi compari, ma la verità è che l’ombra del latitante ha fatto comodo a una generazione di boss per fare affari e soldi. E poi ci sono coloro che, non è da escludere, sono finiti dentro un gioco più grande di loro. Vittime inconsapevoli, ma non per questo incolpevoli, di quei contatti azzerati dall’operazione terra bruciata che si è fatta attorno a un capomafia che resta un fantasma in casa propria.
Sono stati arrestati sorelle, cognati, cugini di primo, secondo e terzo grado del latitante, ma di lui neppure l’odore. O meglio qualcosa si subodora, ma sembra la scia di un olezzo che arriva da lontano. La sua presenza resta impalpabile. Silenzio assoluto, almeno fino al prossimo blitz o al prossimo sequestro che sarà ricondotto al latitante. Perché, ricordiamocelo, il cerchio si stringe.