Sono una che si attacca agli oggetti. Non nel senso dell’attaccamento al valore materiale, ma perché resto per anni legata alle cose, anche le più inutili. Non mi libero facilmente di una boccettina di smalto quasi secco che non uso da anni, di un paio di scarpe che mi piacevano da morire, di un vecchio giornale o di una collana irrimediabilmente rotta. Conservo (a casaccio) scontrini, biglietti di musei, carte d’imbarco. Ho scatole piene di portafoto da adolescente, soprammobili che non mi piacciono nemmeno più. All’ultimo trasloco, la ditta voleva pagato un supplemento quando ha realizzato che in 60 metri quadri scarsi avevo infilato roba per una villa su tre piani. Conservo, accatasto, nascondo. Non butto nulla, come se tenere per casa cose inutili alimentasse un legame con chissà che. Non riesco a separarmene per anni. Rimando il momento in cui liberarmi. Una cosa simile mi succede anche con le persone a cui tengo, mantenendo in vita rapporti troppo spesso sbilanciati. Ma quella è un’altra storia (o forse è la stessa patologia).
Facevo due conti con me stessa, mentre guardavo qualche giorno fa le immagini degli sfollati di Genova, rientrati in casa per prendere l’essenziale. E pensavo che io non sarei capace in due ore di scegliere cosa “salvare” – in termini di oggetti – della mia vecchia vita. Non saprei decidere se portare via la foto di me e mio fratello abbracciati il giorno della mia laurea o quel copriletto che mia madre e sua nonna realizzarono insieme a quattro mani, se abbandonare quintali di carte con appunti, documenti, cartelle stampa che non riapro da anni ma tengo là perché potrebbero tornare utili o lasciare i libri che non mi sono piaciuti, le creme scadute e la maglia che indossavo quel giorno là.
Ecco, se dovessero dirmi “hai due ore per portare fuori da casa tua quello che vuoi”, io quella porta non la riaprirei. Come faccio di solito quando di botto mollo quello da cui prima sembravo inseparabile. Radicalmente. Tutto o niente.