E’ quel “da” al posto del “di” che fa – come sempre – la differenza. Sulla locandina e in scena. Perché questo “Liolà” – prodotto dal Biondo di Palermo in collaborazione con i teatri Garibaldi di Enna e Regina Margherita di Caltanissetta – è come tutti i figli di “da” un digest, un riassunto, un bignamino dell’opera pirandelliana. Nato produttivamente con tonitruanti propositi commemorativi per il 150° anniversario della nascita del drammaturgo – nell’evento che avrebbe dovuto debuttare ad Agrigento, ai templi, a fine estate 2017, erano coinvolti anche il Teatro Pirandello del capoluogo e Sicilia Teatro di Sebastiano Lo Monaco – “Liolà” è stato infine vergato solo dallo Stabile palermitano con il supporto dei teatri pubblici ennese e nisseno diretti da Mario Incudine e Moni Ovadia, anime dell’operazione. Una quasi montagna, dunque, organizzativamente parlando, che ha partorito però un topolino.
Cos’è infatti questo “Liolà”? Stilisticamente un pastiche. Uno, nessuno, centomila: uno spettacolo, nessun preciso segno estetico, centomila riferimenti. Ridotto e adattato da Ovadia, Incudine e Paride Benassai (con un’incursione autorale e interpretativa di cui diremo), diretto da Ovadia e Incudine, ambientato sulla scenografia di Incudine, con le musiche di Incudine, protagonista – nel ruolo del titolo – Incudine, è una sorta di commedia musicale sulla falsariga di quelle che metteva in scena lo Stabile di Catania una trentina – tracimante verso la quarantina – di anni fa e che parte della critica cinicamente stroncava, nonostante lo stordente successo di pubblico. Il “Liolà” del Biondo è anche questo, dimentico però che la ricerca sulla musica popolare ha fatto in questi decenni passi da gigante, che la reinvenzione delle matrici etniche s’è arricchita di nuove forme, s’è commista a nuovi generi. E invece qui il pedale è pesantemente schiacciato su codici melodici di ballate d’amore, di serenate, sulla lusinga festosa di motivetti agresti oppure sulla ritmica ossessiva del baccanale. E’ quasi tutto musicalmente stentoreo, esibito, raramente c’è un momento strumentale o cantato che non sia sopra i toni. Come si dovessero giurare fedeltà alla tradizione ed al cantare spiegato, a tutta ugola.
Anche sul fronte del teatro in senso lato non si capisce dove lo spettacolo voglia andare a parare: c’è il realismo narrativo-dichiarativo di Incudine e Ovadia (ma la maschera sulla bombetta o il “pupi siamo” del teatrino di cui quest’ultimo è accessoriato, lasciamoli perdere), c’è il grottesco spinto simil-espressionista della figurina cartacea tra avanguardie novecentesche e Corrierino dei Piccoli delle zie e delle ragazze (con bei riferimenti nei costumi in verità assai apprezzabili di Elisa Savi) che si muovono con ghigni e scatti di perfidia marionettistica come se si volesse dire “per carità, guardate che qui facciamo anche un po’ di scena contemporanea, mica è tutto abballati abballati fimmini schietti e maritati” e una di quelle scenografie di legno grezzo, pedane semoventi e bastoni simil-mikado (mancano solo i sipari di tela grezza tirati a mano per dare una spolverata brechtiana) tanto per affermare sobrietà, severità, magari risparmio e cacciare qualsiasi sospetto d’orpello o cascame folclorico (excusatio non petita salvata spesso dalle luci che un maestro delle atmosfere come Franco Buzzanca dispiega su fondali evelatini).
L’incursione di Benassai – il personaggio totalmente inventato di Pauluzzu il matto, unico autentico clandestino su questo barcone ispirato a Pirandello – è forse il segnale più drammaturgicamente pertinente fra tutti, e anche se si rifà a un tema ricorrente del teatro dell’autore-attore palermitano che è quello del senza senno, del fuori regola e qui è chiaramente una “corda pazza” in possesso di verità sfuggite di mano ai savi per convenzione sociale, ha una sua poetica ragion d’essere. E insieme a quello della za’ Ninfa – una Rori Quattrocchi di trasognata grazia terragna – è il più plausibile sulla scena. Insomma, Benassai e la Quattrocchi sono i due di maggior spessore espressivo. Anche perché gli altri – la pur sempre ispirata Stefania Blandeburgo e poi Cimino, Lo Brutto, Seminara e Sproviero, impigliati in quel nevritico disegno antinaturalistico, finiscono un po’ per pagarne le spese. Dei ragazzi del Ditirammu (coro in calzamaglia nera) e della loro vitalistica volontà non si potrà che dir bene. E non si potrà certo negare il festoso successo di un pubblico stavolta assai eterogeneo, a giustificare anche qualche perplessità nell’avventore-standard dello Stabile di via Roma, avvezzo da qualche stagione ad altri giri e altre corse.