Nel ghetto di Venezia che andava svuotandosi e che le SS aiutate dai fascisti avrebbero sgomberato nel settembre del 1943, un orologiaio aveva costruito un automa, un giovinetto perfetto e bellissimo come quelli descritti da Casanova e che molti anni dopo Federico Fellini avrebbe fatto interpretare da Leda Lojodice nella sua biografia dell’avventuriero fuggito dai Piombi. A un’ora precisa fra la mattina e il pomeriggio, l’automa del ghetto alzava un calice per celebrare la gloria di quella giornata. Per il nostro orologiaio, sempre più solo, l’automa era spesso l’unica voce che ascoltasse nella giornata, l’unica presenza in quel campiello sempre più assolato e vuoto. Finché arrivò l’ultimo giorno. Fascisti ed Ss entrarono nel ghetto di Venezia decisi a stanarne anche l’ultimo occupante.
L’orologiaio si nascose in uno degli armadi di casa, una grande dispensa che aveva svuotato in fretta, chiudendovisi dentro con il suo automa, sapendo che il suo saluto beneaugurante avrebbe certamente portato gli aguzzini sulle sue tracce. Dunque, il nostro orologiaio si chiuse dentro, con il suo bambino meccanico fra le braccia, aspettando e temendo l’epilogo. I fascisti sfondarono la porta di casa con un calcio e iniziarono a guardarsi attorno in casa.
L’orologiaio quasi non respirava, quando si accorse che il meccanismo dell’automa stava mettendosi in moto. Ancora pochi secondi e avrebbe alzato il braccio per salutare la vita che continuava, e lui sarebbe stato perduto. Ma l’automa non si mosse. Il meccanismo si fermò come era iniziato. Quando, la sera, l’orologiaio trovò la forza di uscire dal suo rifugio, nel ghetto non c’era più nessuno. Solo qualche carta e pochi stracci che volavano sotto i portici. Con il suo automa sempre stretto fra le braccia, l’orologiaio arrivò al canale. E ve lo buttò. Nessuno sa perché lo fece. Ognuno ha una sua teoria e certamente l’avrete anche voi.
Il fotografo Paolo Ventura, incontrato vent’anni fa giovanissimo ai tempi di Amica, ora artista famoso esposto nelle più famose gallerie di New York, ha raccontato la sua versione in una serie di opere che, dopo essere state esposte presso il Silos di Giorgio Armani, sono diventate ricercatissime dai collezionisti. Tutti si interrogano sulla fine dell’automa, anche gli ospiti che affollavano l’altra sera la bella casa milanese dell’avvocato Alberto Saravalle, cultore dell’opera di Ventura e di questa storia perfetta per i tempi bui che stiamo vivendo.