Quando Giorgia Meloni ha deciso di commissariare il partito in Sicilia, lo ha fatto a ragion veduta. Voleva fermare gli scandali che hanno attanagliato la sua creatura al di qua dello Stretto, dove alcuni militanti (o simpatizzanti) “prestati” alla dirigenza – pensate: è finito al Senato chi era a capo della segreteria politica di un ex assessore – si sono arrogati il diritto di maneggiare senza cura, e con arroganza, il denaro pubblico. Mentre Luca Sbardella scendeva a Enna per il primo congresso del nuovo corso, ospitando nei selfie gli ex sostenitori del Balilla che avevano deciso di scaricarlo, un altro grosso guaio serpeggiava nella sanità: quello del manager dell’Asp di Trapani, già assessore comunale di Giardini Naxos, che pur avendo fallito in pieno il suo mandato, restava ancorato alla posizione di potere ch’era stato Ruggero Razza a fargli conquistare.
Può essere un caso, e certamente lo sarà: ma questa classe dirigente meloniana, fin qui, ha provocato alla premier più imbarazzi che gioie. E’ il caso di chi è arrivato troppo in alto senza fatica, e ha dovuto rispondere di azioni e comportamenti a cui non era abituato. Non basta saper cantare a squarciagola l’inno di Mameli, o partecipare al teatrino di Brucoli, per riscoprirsi patrioti e competenti. E l’ha capito anche Giorgia, affidando il partito a un papa straniero: Luca Sbardella.
Il commissario non si è occupato in prima persona del caso Croce, né ha convinto il Direttore generale dell’Asp di Trapani a farsi da parte. Anzi, in queste ore Fratelli d’Italia sta tentando l’impresa – ci sarebbero un paio di Pec a testimoniarlo – di far credere che Croce è stato l’unico ad essersi accorto, già lo scorso luglio, che circa 3 mila esami istologici non erano stati refertati, e che il suo grido d’aiuto è rimasto inascoltato ai piani alti di piazza Ottavio Ziino (dove agiscono un assessore e un dirigente alla Pianificazione di ispirazione forzista). E’ solo l’ultimo tentativo di rendere impune un “compagno”.
FdI per tanto, troppo tempo ha avuto il dono dell’impunità: ne ha usufruito l’assessore Scarpinato dopo il casus belli di Cannes, con 3,7 milioni consegnati per decreto a una società lussemburghese; e anche le acrobazie di Manlio Messina coi soldi di SeeSicily (a valere su fondi comunitari), erano passate in cavalleria, fino all’intervento – severo ma giusto – della Commissione europea, che ha accertato spese irregolari per oltre 13 milioni. Il Balilla, comunque, ha confermato che rifarebbe tutto. E magari ripeterebbe il copione dall’inizio: con la conquista del turismo, dei teatri, degli enti lirici; e dei contributi versati ai big player della comunicazione – per i giri in bici, le sfilate a cavallo, le celebrazioni belliniane – che l’avrebbero reso più forte, quasi invincibile, agli occhi dello star system. L’ex assessore, tuttavia, è l’unico a essere uscito ridimensionato dalla rivoluzione copernicana di Giorgia: s’è dimesso da vicecapogruppo alla Camera dei Deputati e c’è mancato poco che non abbandonasse il partito.
Non è riuscito a farla franca, almeno in apparenza, neppure l’allievo Carlo Auteri. Mezzo sconosciuto fino all’inizio della legislatura e poi in grado di spartire oltre 700 mila euro di contributi regionali alle associazioni culturali gestite dalla madre e della moglie. Il caso, divenuto nazionale, ha fatto sbottare il responsabile dell’organizzazione Giovanni Donzelli, e di conseguenza la premier, che nel giro di qualche mese ha provveduto a rintuzzare queste insopportabili fughe in avanti da parte di semplici manovali. Auteri, dimissionario dal gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia ma ancora identificato col partito nel Siracusano (ormai arcinota la sua rivalità con Luca Cannata), è l’esempio lampante di come non andrebbero gestite le risorse pubbliche: fino a che non ci sarà una sentenza da parte della magistratura (indaga la Corte dei Conti) rimane una gestione inopportuna sotto il profilo etico e politico. La stessa assessora al Turismo, Elvira Amata, ha riversato mezzo milione di euro nella sua provincia, Messina, per associazioni e parrocchie, comuni e Pro Loco, società sportive e culturali. La sagra del suino nero e del porcino, per citare la più celebre, è costata 7 mila euro. Tutto coi soldi della Finanziaria.
Un altro scandalo si è sviluppato ad Avola, dove per anni è stato sindaco Luca Cannata. Pare che il candidato (poi “bruciato”) alla guida della segreteria regionale, abbia ricevuto una “colletta” (in contanti) da 150 mila euro da parte dei suoi ex assessori. Il quotidiano ‘La Sicilia’ ha rivelato le chat e la Meloni non ci ha più visto. Negli stessi giorni il manager dell’Asp di Trapani era intento a sborsare 100 mila euro in comunicazione per potenziare l’immagine della sua azienda, anziché trovare un modo per smaltire le biopsie arretrate, che l’Unità di Anatomia patologica – a causa di una carenza di personale preoccupante – non era stata in grado di refertare. Oggi, anziché ammettere le proprie responsabilità, annaspa dietro lo scudo dell’ex assessore alla Salute, attuale europarlamentare a Bruxelles. E la Faraoni, che forse paga un debito di riconoscenza nei confronti di chi la volle a dirigere l’Asp di Palermo nel 2019, non trova la forza per fargli pronunciare l’unica parola ammissibile: dimissioni.
Non ha brillato nella sua esperienza da presidente dell’Ars nemmeno Gaetano Galvagno, il delfino di Ignazio La Russa e il candidato in pectore alla guida della Regione (comunque dopo Schifani). Solo qualche giorno fa il Ministero dell’Economia ha presentato dei rilievi per voci di spesa pari a 50 milioni dell’ultima Finanziaria: sarebbero stati assegnati – com’è accaduto, specialmente, negli ultimi anni – in maniera discrezionale e, probabilmente, in aperta violazione dell’art.3 della Costituzione. Galvagno non è solo uno dei settanta deputati all’Ars, ma è soprattutto quello cui attiene il controllo e l’indirizzo legislativo del parlamento siciliano. Che nel 2024 è tornato a imbattersi nelle durissime reprimende di Palazzo Chigi e Corte Costituzionale, sotto forma di impugnative. Quello dell’ultima Legge di Stabilità – l’aula di Sala d’Ercole come bancomat della politica – non è imputabile solo a Galvagno, e rappresenta soltanto l’ennesimo episodio della saga. Ma in Sicilia è così. Solo il tempo cancella gli scandali. Compresi quelli che investono i patrioti.