L’introduzione del nuovo nomenclatore tariffario, che determinerà un taglio netto dei rimborsi alle strutture convenzionate, rischia di mandare nel caos una sanità siciliana già provata da mille criticità (leggi la PUNTATA 1). La questione, però, non sembra riguardare i palazzi del potere, che dopo aver deciso a tavolino la lottizzazione delle Aziende sanitarie e degli ospedali, nominando le nuove governance, si occupano solo di investimenti (in prospettiva). Schifani ha salutato con giubilo il nuovo Accordo di Programma con il Ministero della Salute che libera 750 milioni per la realizzazione di tre nuovi ospedali a Palermo (e la ristrutturazione del padiglione “A” del “Cervello”). Ma gli interventi di edilizia ospedaliera rischiano di non avere alcun impatto sul miglioramento della vita delle persone se non vengono supportate da scelte che facilitino l’accesso alle cure.
Altrove le Regioni sono riuscite a compensare i “tagli” alle tariffe dei convenzionati. In Sicilia tutto ciò è fantascienza. Non ci sarà alcuna integrazione da parte di Palazzo d’Orleans, perché sulla testa dei nostri governanti pende la tagliola del cosiddetto “Piano di rientro”. La Regione Siciliana ha sottoscritto il Piano di Rientro dal disavanzo sanitario il 31 luglio 2007, con l’obiettivo di riequilibrare i conti e migliorare l’efficienza del Servizio Sanitario. Inizialmente, il piano copriva il triennio 2007-2009. Tuttavia, a causa del persistere di disavanzi significativi, la Regione ha proseguito con programmi operativi triennali successivi, come previsto dalla normativa nazionale, per completare gli obiettivi di risanamento. Ma questi obiettivi, dopo 17 anni, non sono stati ancora raggiunti. E nessuno è in grado di stabilire quando ciò avverrà. La conclusione definitiva del Piano di Rientro, infatti, dipenderà dal conseguimento degli obiettivi prefissati e dalle valutazioni periodiche effettuate dagli organi competenti.
Fino ad allora, la Regione non potrà investire in sanità un solo centesimo in più rispetto a quanto pattuito con lo Stato. Anche se quei soldi dovessero contribuire a salvare delle vite. Non sono ammesse deroghe. Lo ha stabilito, fra l’altro, una recente sentenza della Corte Costituzionale, la n.197 del 13 dicembre, con cui i magistrati hanno dichiarato “l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge numero 3 del 2024, che incidevano sui limiti di spesa, a carico del bilancio regionale, relativi alle prestazioni sanitarie e al costo del personale delle società a partecipazione pubblica”. Analizziamo la prima parte: “Le questioni – si legge nel dispositivo – erano state promosse dal Governo” nazionale, “che – quanto alle censure riferite all’aumento dei costi per le prestazioni sanitarie – contestava la violazione, da parte della Regione Siciliana, dei limiti discendenti dal Piano di rientro dal disavanzo sanitario, cui essa si trova tuttora sottoposta”.
Nella legge di cui sopra, la Regione aveva provveduto a un adeguamento tariffario del 7% per le prestazioni erogate da strutture riabilitative per disabili psico-fisico sensoriali, comunità terapeutiche assistite, residenze sanitarie assistenziali e centri diurni per soggetti autistici; e a un adeguamento tariffario fino al 2% per le prestazioni dei centri dialisi. “L’aumento delle tariffe, previsto a carico del bilancio regionale, non è in linea – ha precisato la Corte – con i valori nazionali di riferimento e si traduce in una spesa sanitaria ulteriore rispetto agli esborsi concordati in sede di approvazione del Piano di rientro, dal quale discende la cornice economico-finanziaria in cui la Regione è tenuta a muoversi”. Per ragioni analoghe, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di un’altra disposizione che ha esteso, fino al 2026, la particolare “indennità di funzione” introdotta, durante il periodo dell’emergenza pandemica, in favore delle strutture private accreditate con il Servizio Sanitario Regionale. Tale misura, che ha consentito l’erogazione di prestazioni sanitarie oltre il budget annuale concordato con il Servizio Sanitario Regionale, era stata stabilita solo per il triennio 2020-2022. Con la legge impugnata, invece, la Regione ha disposto l’estensione della misura oltre i limiti temporali legati al periodo dell’emergenza, “in tal modo venendo meno ai vincoli discendenti dal sistema nazionale del budget di spesa, illegittimamente ampliando gli esborsi a carico del bilancio regionale, già in precario equilibrio”.
Al netto dei tecnicismi, appare chiara una cosa: che la Regione ha le mani legate. Non può spendere un euro senza che Palazzo Chigi ne contesti la ratio e senza che i giudici ci mettano il becco. Da questo vincolo devastante discende che esistono già un’autonomia differenziata e un’Italia a due velocità, specie in ambito sanitario. Tutti i bei discorsi atti da cui prendono spunto le considerazioni di Schifani e di Forza Italia, atti a garantire i Lep (i livelli essenziali delle prestazioni), sono superati in partenza. Perché accade, come in questo caso, che la Sicilia abbia un’evidente necessità di introdurre strumenti finanziari per garantire le cure, e che non possa farlo.
Già in altre circostanze – vedi la questione del disavanzo storico da quasi due miliardi – Palazzo d’Orleans e i Ministeri competenti (il MEF) hanno trovato il modo per venirsi incontro e allentare la cinghia, garantendo ad esempio lo sblocco del turnover e dei concorsi, in cambio di un processo di riqualificazione della spesa che, gradualmente e finalmente, sembra dare i suoi frutti (il disavanzo è quasi del tutto rientrato). Perché in materia sanitaria non è possibile arrivare alla medesima soluzione, evitando il collasso del sistema? Di chi sono le responsabilità? E soprattutto: un tentativo è stato fatto? Con quale risultato?
Lo stesso governo che acconsente al versamento di tre milioni nelle casse di Mediaset per l’organizzazione del concerto de Il Volo e del capodanno in piazza a Catania, dovrebbe assumersi ben altre responsabilità nei confronti dei propri cittadini, che non siano le feste e il sollazzo. Dovrebbe intervenire in maniera adeguata, forse decisa, nelle dinamiche col Ministero della Salute, contemperando – nella sua proposta – il diritto alle cure e la sostenibilità economica dei privati convenzionati che fin qui hanno permesso al sistema di reggersi in piedi. Evitando che nuovi scandali, forse meno appariscenti ma ben più gravi dei fondi alle associazioni culturali, inneschino una reazione a catena, con conseguenze dirette sulla vita delle persone. Dovrebbe, in sostanza, rimettere la salute al centro della propria agenda politica, evitando di ridurre tutto ai soliti annunci. C’è la possibilità che qualcuno se ne interessi? Continua nella terza puntata…