La sintesi, brutale, potrebbe essere abbozzata così: la Corte, pur non considerando incostituzionale l’intera legge sull’Autonomia, ne demolisce aspetti centrali (leggi qui Federica Olivo). Dice, in sostanza: si può fare una legge, ma non così: non si possono devolvere in blocco tutte le materie alle Regioni, in quanto questo non è coerente con l’assetto complessivo della forma di Stato. I trasferimenti alle Regioni possono essere solo mirati. Non si possono stabilire i Lep con un atto amministrativo, come un decreto del presidente del Consiglio. Bisogna mettere mano alle tasse che transitano dalle Regioni allo Stato. Ci deve essere l’obbligo delle Regioni (non la semplice “facoltà”) di contribuire alla finanza pubblica. Il Parlamento deve avere un ruolo più centrale nelle intese. Alcune parti sono cassate, alcune emendate.
Politicamente parlando, è una sonora figuraccia per l’intero governo, sia per chi l’ha voluta, sia per chi non l’ha impedita. I rilievi, nel merito, certificano l’obiezione di fondo della riforma: quella di non essere coerente con un disegno di tenuta istituzionale e sociale del paese. E squadernano, al tempo stesso, tutti i limiti di un metodo baldanzoso e pressappochista seguito fin qui. Insomma, la logica delle bandiere: a me il premierato, a te la separazione delle carriere, a te l’Autonomia, senza approfondire né il disegno d’assieme (magari con un Senato delle Regioni come camera di compensazione) né le singole compatibilità di impatto. Continua su Huffington Post