Con la bocciatura dell’articolo 3 delle variazioni di bilancio, quello relativo alla concessione di finanziamenti agevolati alle medie imprese e alle aggregazioni di imprese (norma molto cara all’assessore Tamajo), Renato Schifani ha toccato il fondo. Anche perché i 30 milioni su cui l’Ars ha preferito soprassedere, utilizzando il voto segreto, sarebbero stati gestiti dall’Irfis, che la Regione utilizza sempre più come leva di potere e di consenso. Una creatura affidata alle cure dell’imprenditrice Iolanda Riolo dopo le dimissioni (forzate) di Tommaso Dragotto. Sembra la chiusura del cerchio. In realtà è solo l’inizio di problemi più grandi.
E’ vero: nella serata di ieri, complice il voto del partito di Catenio De Luca, l’Ars ha approvato la manovra-quater. Ma ha potuto farlo solo a costo di numerose rinunce. Ricordate la parabola del governo “coeso e leale”? Gli ultimi passaggi a Palazzo dei Normanni hanno ridicolizzato la teoria venuta fuori da quattro vertici di maggioranza – l’ultimo immortalato da una foto ricordo – e rifilata ad Antonio Tajani nel giorno della kermesse di Forza Italia a Santa Flavia. La verità è un’altra: cioè che il governo non esiste senza inciuci, e che la maggioranza è un’entità fantasma. Sparisce e riappare come per magia, a seconda che si parli di riforme (zero quelle approvate in due anni di legislatura) o di mance. Nel caso della votazione sui 30 milioni per Irfis, a marcare visita sono stati sei deputati della coalizione di centrodestra, che erano in aula ma si sono astenuti. Non è bastato catechizzarli per intere giornate, promettendo mari e monti. Al momento di pigiare un tasto, hanno incrociato le braccia.
Come detto, però, è solo l’ultimo episodio. Per far andare avanti il testo della manovra-quater, ieri mattina, il governo ha dovuto rinunciare alla norma per l’acquisto del palazzo ex Sicilcassa, a Palermo, tuttora in uso alla Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti: costo stimato 12,5 milioni di euro. E il giorno prima ha dovuto ritirare parecchie norme: come quelle che prevedevano uno stanziamento di 350 mila euro per l’Orchestra Sinfonica Siciliana o i 600 per garantire il riutilizzo delle acque reflue nel comune di Castelvetrano. E’ uscita di scena pure la norma per la salvaguardia delle eccellenze agroalimentari contrassegnate dal marchio DOP o IGP, che la Democrazia Cristiana avrebbe potuto “vendersi” con soddisfazione alla Festa dell’Amicizia che scatta oggi a Ribera: al tavolo sull’Agricoltura, insieme a Totò Cuffaro, parteciperà anche il governatore Renato Schifani.
E non è andato in porto il maxi emendamento parlamentare, con una dotazione economica di 80 milioni, che avrebbe dovuto mettere d’accordo maggioranza e opposizione. Perché? Il motivo è semplice: qualcuno aveva cominciato a puntellare anche la manovrina di mance ricadenti sui territori, spacciandole per misure di promozione turistica. Schifani aveva detto di non farlo, almeno fino alla Legge di Stabilità. Ma l’accordo non ha retto e il maxi emendamento è stato accantonato (alcune proposte torneranno di moda con la Finanziaria 2025). Anche la proposta di un maxi emendamento del governo, con dentro alcune norme provenienti dall’opposizione, ha riscaldato i cuori fino a un certo punto.
Ne fa parte il Reddito di povertà – l’altra misura lanciata da Schifani durante la convention con Tajani – che però è stata ridimensionata a livello linguistico: si tratta, infatti, di una misura “una tantum”, che non deve somigliare in alcun modo quella del Reddito di cittadinanza, già cestinata dal governo Meloni. Resta, ed è chiara, l’impronta populista e grillina di un provvedimento che non servirà a nulla (si era parlato di 5 mila euro per le famiglie sotto i 5 mila euro di Isee, ma i criteri verranno definiti in un secondo tempo dalla giunta) se non ad alimentare – o almeno provarci – il clientelismo di massa di cui questo governo è stato interprete fin dal day-1. Capendo, forse, che questa deriva assistenzialista, che è “altro” rispetto al centrodestra romano, l’avrebbe aiutato a reggere il giochino delle urne di medio termine (vedi le Europee o le Amministrative).
La maggioranza è andata incontro a sonore bocciature anche quando ha provato a riordinare gli enti locali, con l’introduzione del consigliere supplente o il riconoscimento della rappresentanza di genere al 40% nelle giunte dei comuni. Il testo è tornato in commissioni Affari istituzionali per essere smembrato in piccoli ddl stralcio ed essere riproposto in occasioni più propizie.
Anche se la chiave di volta della legislatura – ma la porta, finora, è rimasta bloccata dall’interno – riguarda la reintroduzione del voto diretto per le ex province. Schifani aveva pubblicato un decreto con la scadenza del 15 dicembre per effettuare le elezioni di secondo livello, in cui sindaci e consiglieri comunali – in ottemperanze alle varie pronunce della Consulta – avrebbero eletto gli organi istituzionali degli enti d’area vasta. Ma con un blitz dell’ultima ora, la solita commissione Affari istituzionali dell’Ars ha rimescolato le carte, proponendo un disegno di legge che si muove in direzione opposta e contraria. “Appiccicando”, nel frattempo, un emendamento al ddl urbanistica per rinviare alla prossima primavera le elezioni di secondo livello. Un magheggio per ottenere la proroga dei commissari. Un pasticcio in piena regola contro il quale lo Stato potrebbe rivalersi.
Dulcis in fundo, anche la modifica della Legge Urbanistica ha subito seri contraccolpi. Che Schifani e i suoi assessori hanno dovuto subire. Dal testo, infatti, è sparito il riferimento al “contenimento” della riduzione di suolo, principio che avrebbe dovuto sostituire l’ “azzeramento” inizialmente previsto; la sanatoria per i beni confiscati a Cosa Nostra e restituiti agli enti locali (“Un’aberrazione” secondo il M5s); ed è scomparsa anche la possibilità di ampliare gli edifici fino al 30 per cento dei volumi rispetto all’esistente. L’articolo 8, che secondo molti dell’opposizione avrebbe favorito alcuni “palazzinari” senza scrupoli, prima era stato mantenuto (col voto segreto) e poi ritirato, in seguito a un’attenta riflessione aperta dall’assessore al Territorio e Ambiente, la meloniana Giusy Savarino. Che per il momento ha impedito che un altro strumento borderline, come la sanatoria per gli edifici sorti a 150 metri dal mare (negli anni dal 1976 al 1985), motivo d’orgoglio per un altro patriota (il capogruppo di FdI Giorgio Assenza), approdasse in aula.
Com’era la storia della maggioranza coesa e leale?