Se i corridoi di palazzo d’Orleans potessero parlare, ci darebbero conferma che durante il vertice promosso ieri pomeriggio dal Mpa di Raffaele Lombardo, con la gentile presenza del governatore Schifani e degli altri partiti della coalizione di centrodestra, si è parlato di tutto, tranne che del necessario. Cioè delle due rogne che affliggono l’esperienza di governo: da un lato il malcontento di Forza Italia, dall’altro il servilismo nei confronti dei patrioti. Due meccanismi che hanno reso palpabile la gestione “feudale” di Schifani, capace di ritagliarsi un esecutivo a sua immagine e somiglianza, un sottogoverno per i riccastri che gli organizzano le feste, salvaguardando però gli spazi di pertinenza di Fratelli d’Italia (sulle nomine in primis). Agli altri non rimangono che le briciole e sparuti tentativi – come quello di ieri – di riequilibrare la baracca, e provare a contare qualcosa.

Finora non è stato così, come suggerisce l’ultimo rimpastino. La Lega ha compensato l’uscita di Sammartino con la nomina dell’ennesimo tecnico, Salvatore Barbagallo, all’Agricoltura; Noi Moderati era ed è rimasto fuori dalla giunta nonostante l’ottimo risultato di Massimo Dell’Utri, candidato di bandiera alle Europee nel listone di Forza Italia; e la stessa Forza Italia, il partito del governatore, s’è arresa al dato di fatto che 12 parlamentari non fanno un assessore, e nemmeno mezzo (all’Economia è stato nominato Dagnino). Chi si è permesso di farlo notare al governatore è stato tacciato di remare contro. Fulminato con uno sguardo. Alle accuse della fronda interna sulla conduzione del partito, Schifani ha contrapposto il diniego a un vertice “interno”, ottenendo la difesa di Tajani e di Gasparri (ma il silenzio di tutti gli altri). Continua a rimanere in bilico la posizione del fedelissimo Caruso, che però non rappresenta il sentiment di Forza Italia, bensì quello del presidente della Regione, in una commistione di ruoli che comincia a mostrare tutta la sua fragilità.

E pure il tentativo di convincere i “ribelli” ad abbassare la guardia – con l’offerta di sostituire la Volo a piazza Ottavio Ziino – si è rivelato goffo. E’ finito in pasto alla stampa e ha fatto il giro dei palazzi, lasciando che a irrigidirsi fosse il gruppo di Tamajo. Cioè colui che fin dall’indomani dell’esito delle Europee, ha ricevuto da Schifani un paio di sgarbi: dalla rinuncia al seggio di Bruxelles (in favore di Caterina Chinnici) passando per il mancato upgrade alla Sanità. Il ras di Mondello, 120 mila preferenze alle ultime elezioni, se n’è rimasto alle Attività produttive a spargere moneta, poco male; ma al primo tentativo di autocandidarsi alla successione di Re Renato, con un messaggio vocale subito spifferato al presidente, è stato ammonito in malo modo. Tamajo, che è riuscito a scippare qualche casella all’ultimo valzer delle nomine (nelle Asp e negli ospedali), ha assunto un fare attendista, che non lascia intravedere nulla di buono: né per lui né per Schifani.

Oltre alle peripezie agrigentine, con La Rocca Ruvolo e Gallo Afflitto sul piede di guerra, il presidente dovrà tenere a bada il resto del partito, che gli si potrebbe rivoltare contro alla prima occasione utile: in aula. Per ora è riuscito a rimandare il voto sul disegno di legge che istituisce 390 poltrone negli enti locali, che agli azzurri sta particolarmente a cuore. Creando, però, le premesse per un’altra frattura. Eppure, pensandoci, basterebbe trattare i forzisti con la stessa riverenza toccata a Fratelli d’Italia. Che in Sicilia fa il bello e il cattivo tempo, godendo di una “immunità” più che robusta.

Schifani, in un primo tempo, aveva provato a mettere in riga i patrioti con la storia di Cannes e del turismo, poi ha dovuto desistere. S’è arreso al fascino dei Balilla, dei La Russa, dei Lollobrigida. Ha rinunciato persino al corpo a corpo con Scarpinato, che nella prima parte della legislatura era diventato il suo bersaglio mobile. Taglia nastri con Aricò (oggi per la riapertura dello svincolo di Termini, sulla A19). Ha ceduto alle iniziative e ai metodi della “corrente turistica”, va d’amore e d’accordo con l’assessore Amata (con cui ha intitolato una sala vuota dell’assessorato a Totò Schillaci), e non è un mistero che persino con Galvagno – grazie al traino di La Russa – i rapporti siano migliorati parecchio nell’ultimo anno.

Il presidente dell’Ars è un altro vincitore della lottizzazione della sanità. L’ultimo rampollo della destra catanese, destinato a correre per la presidenza della Regione, potrebbe inviare un messaggio all’intera rubrica del suo telefono, annunciando la propria discesa in campo, e sarebbe comunque al riparo dai rimbrotti e dai rancori del governatore. Fratelli d’Italia ha garantito a Schifani cinque anni di lussuosa permanenza a Palazzo d’Orleans, e lui non può dimenticarsene. L’unico che continua a provocargli l’orticaria è Musumeci, contro il quale sfoga frequentemente la sua rabbia: per gli incendi, per le produzioni Rai a Stromboli, per la manutenzione delle dighe. Ma il ministro, ormai, ha poco a che fare con l’Isola, e non desta particolari pensieri. A differenza dei Messina di turno, che per ingraziarselo lo ha convocato al Brucoli Village, per la seconda edizione de ‘Le radici della bellezza’. Posti che vai, amici che trovi.

E’ come se in Sicilia esistessero due mondi fatati: da un lato lo stato feudale di Schifani, dall’altro la repubblica indipendente dei patrioti. Due realtà che si toccano, ma non si sovrappongono mai. Al di fuori di questo mondo ideale, però, prevalgono i mal di pancia, i rancori, le spaccature più o meno dichiarate. E non basteranno i toni borotalcati di un vertice per sopirle tutte. Al contrario: l’osannato summit della maggioranza ha già rivelato il suo volto. S’è trasformato in un inutile colloquio fra sordomuti.