Qualcuno, nel vertice convocato per domani a Palazzo d’Orleans, dovrà avere il coraggio di rivelare a Schifani uno dei problemi più gravi della sua maggioranza: le divisioni dentro Forza Italia. Un accenno potrebbe arrivare da Raffaele Lombardo, leader del Mpa, che alle ultime Europee ha sostenuto la candidatura di Chinnici nel listone azzurro; ma non lo farà, per una questione di bon ton. E neppure Totò Cuffaro, segretario nazionale della Democrazia Cristiana, farà notare all’amico Renato che prima di risolvere i problemi di un’intera coalizione dovrebbe occuparsi di ciò che accade in casa propria (sarebbe indelicato da parte sua). L’onere spetterebbe al commissario regionale azzurro, Marcello Caruso, che da leader e guida carismatica del partito più rappresentato all’Ars – con gli ingressi di Intravaia e De Leo siamo a 14 deputati – dovrebbe suggerire al governatore una soluzione al mal di pancia dei reprobi. Macché, verrebbe incenerito con uno sguardo.

Per la verità ci ha provato, su diktat del governatore, con una cena organizzata qualche sera fa a Palermo, raccontata su ‘La Sicilia’ da Mario Barresi: sembra che per far rientrare le polemiche di Marco Falcone e Tommaso Calderone, ex capogruppo all’Ars volato a Montecitorio, abbia recapitato su un piatto d’argento la proposta di affidare l’assessorato alla Salute alla corrente dei ribelli, sfilandola dalle mani dell’assessore Giovanna Volo. Fuori un “tecnico”, dentro un “nemico”, pur di dare prova delle sue buone intenzioni. Il processo si è incagliato sulla sorpresa degli interlocutori – che non si aspettavano una proposta di tale levatura – e sulla furia dei tamajani, che avevano bramato a lungo un upgrade dopo la prestazione delle Europee e invece, oltre alla poltrona di piazza Ziino, hanno perso pure il treno per Bruxelles.

Il commissario regionale, che sarà bravissimo a fare da cerimoniere per gli ospiti di Palazzo d’Orleans, non sembra nelle condizioni di poter gestire un partito così importante. Si aprono crepe su tutti i fronti: prima ad Agrigento, dove Gallo e La Rocca Ruvolo hanno contestato la gestione della sanità; poi a Catania, dove Falcone & C. si sono sentiti esclusi dal rimpastino che ha preceduto le ferie estive (oltre che sviliti dall’ingresso di Armao nel “cerchio magico”); ovviamente anche a Palermo, dove Tamajo non fa mistero – specie coi suoi fedelissimi – di voler ingranare le marce alte, per essere pronto all’appuntamento delle prossime Regionali. E tuttavia finisce per essere soffocato dai rancori presidenziali: Schifani lo ha ripreso a muro duro per quell’audio (innocente) inviato ad alcuni sostenitori, e sembra fosse sul punto di sfilargli la delega alle Attività produttive. A placarlo ci ha pensato il saggio Totò Cardinale.

Forza Italia è questo: un partito congestionato. Dove l’unica cosa che accomuna tutti è la scarsa fiducia nei confronti del commissario, reo di rappresentare una sola voce (quella di Schifani) lasciando fuori le altre. Per nessuno dei dodici parlamentari eletti – tranne Tamajo – c’è stato spazio in giunta nei primi due anni di governo, dove le uniche promozioni, dal nulla, sono toccate a Giovanna Volo e Alessandro Dagnino. Caruso? Non ha mosso un dito per evitarlo. E non ha dato spazio neppure a un dibattito, reclamato pubblicamente dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, per fare un’analisi del voto post-Europee, nella consapevolezza – forse – che qualcuno avrebbe avuto da ridire sulla conduzione della campagna elettorale. Calderone è arrivato a contestare la spartizione delle mance avvenuto con l’ultima Finanziaria, parlando inoltre di “partito monocratico”. Falcone ha incassato in silenzio, prima di convocare la segreteria provinciale a Catania e fare il punto della situazione. Anche in quel caso Caruso non c’era.

Il commissario è quasi sempre assente, tranne che non si debba spacciare una velina di congratulazioni per il presidente e la sua azione di governo, che avrebbe convinto anche altri deputati (vedi Intravaia) a salire sul carro del vincitore. Più presente a parole che coi fatti, qualcuno avrebbe in mente di chiederne la revoca al segretario Tajani, per riportare la pace nel partito. Per cancellare il pregresso e ripartire da zero. In una situazione, però, dove è chiaro solo chi comanda: Schifani. A lui si deve solo un sentimento di venerazione. E nessuna scocciatura. E’ un po’ come Musumeci: non si abbassa al confronto coi partiti, figurarsi dentro il partito. E’ già un miracolo se riusciranno a portarlo al vertice di domani, ma non sarà merito di Caruso; bensì della richiesta pressante di Raffaele Lombardo, che non vede l’ora di cantargliele.

A Palazzo d’Orleans ci sarà anche Fratelli d’Italia, che certo non ha gradito il passaggio di Intravaia sotto le insegne berlusconiane (anche se si era sganciato da tempo dal gruppo dei patrioti); e ci saranno quelli di ‘Noi Moderati’, che dopo aver dato prova di coesione alle ultime Europee, candidando Massimo Dell’Utri, si aspettavano – come altri – un pizzico di riconoscenza. Ma non c’è stato tempo di vedersi, di discutere o di dire ‘grazie’. Dopo aver incassato il 23 per cento per meriti altrui, Schifani s’è rinchiuso nella reggia e ha fatto perdere le tracce. Ha ripreso a gestire la Sicilia in maniera feudale, lasciando a Caruso l’onere di compilare la lista dei buoni e dei cattivi. Di quelli da premiare con un posto di sottogoverno, e di quelli da punire per aver preso a bordo un ex che non è mai stato troppo ex (Micciché).

Il paradosso è che al vertice di domani manchi il partito più influente e più numeroso della coalizione: Forza Italia. Ci sarà solo la ristretta cerchia del presidente, capeggiata da un maggiordomo. Così, senza rivali interni, anche Caruso potrà mostrare di avere polso e statura. A Marcè, facce Tarzan!