In Sicilia si parla solo di Forza Italia, anche se gli unici a eludere l’argomento sono (sembrerebbero) i vertici del partito: nessuno, da Schifani a Caruso, pronuncia una parola sul malcontento dei deputati – silenti e sofferenti anche loro – e sulla fronda azzurra che si alimenta di alcune dichiarazioni a mezzo stampa. Prontamente zittite da Tajani. Qualcuno pensava, o forse sperava, che l’uscita del segretario nazionale durante la festa dei giovani a Bellaria – bell’esempio di democrazia – fosse la pietra tombale su qualsiasi disagio al di qua dello Stretto. Così non è stato. Perché da un lato ci si organizza attorno a un documento, ancora abbozzato, per chiedere la revoca del commissario regionale Marcello Caruso; dall’altro si prova, con convinzione, a reclamare un vertice di partito che per troppo tempo è rimasto in sospeso. Pensate che Schifani ha accolto l’invito di un incontro di maggioranza proposto dagli Autonomisti di Lombardo, mentre non ha ancora consegnato ai forzisti siculi le sue riflessioni post-elettorali (nonostante il voto delle Europee disti la bellezza di tre mesi).
Forza Italia sembra diventato, con le dovute proporzioni, lo stadio dei Marmi di Roma (oggi adibito al tennis). Non fiata nessuno – neppure i difensori d’ufficio come Stefano Pellegrino hanno offerto una parola di conforto a Schifani in queste fasi di assedio – tranne i cosiddetti “reprobi”, che hanno finito per stizzire anche Tajani: “Contarsi sui giornali a chi fa più interviste non è un buon modo, se poi le interviste si fanno solo per parlare male di quelli del tuo partito diventa controproducente”, ha detto il segretario nazionale. Con chiaro riferimento al vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, reo di stimolare un confronto sulla gestione del partito in Sicilia; e indirettamente, chissà, a Marco Falcone, che dopo aver ottenuto il seggio all’Europarlamento, s’è premurato di organizzare una segreteria provinciale del partito a Catania. Prima che qualcuno, magari, glielo impedisse.
Falcone, dopo l’addio al governo della Regione, si è comportato da gran signore; senza mai replicare alle umiliazioni subite da Schifani durante l’ultima fase del suo governo (a partire dal ritiro della delega alla Programmazione e del “commissariamento”, de facto, con Gaetano Armao, divenuto consulente per le questioni extraregionali). Mulé, invece, rappresenta l’anima critica. Avrebbe dovuto candidarsi alla presidenza della Regione nel 2022, ma non ha potuto per un cavillo (era richiesta la residenza in Sicilia). Oggi rappresenta la “novità”, oltre che la vera insidia per il cerchio magico del governatore. Entrambi – Mulè e Falcone – hanno una cosa in comune: essersi spesi in campagna elettorale per Caterina Chinnici.
Il nome della magistrata ex Pd è apparso spesso in coppia con l’ex assessore al Bilancio e non sono mancati eventi pubblici con la partecipazione di entrambi, sotto lo sguardo vigile di Mulè. Anche per far piacere a Tajani, che aveva piazzato la Chinnici nel ruolo di capolista affidando le sue sorti al partito siciliano (che però non l’ha mai sostenuta, facendola arrivare sull’ultimo gradino del podio, esclusa dall’Europa fino alla rinuncia di Tamajo). Suona beffardo che i salvatori della Chinnici – del novero fa parte pure Raffaele Lombardo – oggi si trovino in aperta contrapposizione con Schifani, in maniera più o meno dichiarata.
Falcone, peraltro legatissimo a Maurizio Gasparri, si è limitato a dire che “confrontarsi possa essere solo un bene” e “nel nostro partito ci si confronta”. Mulè è stato più duro e più incisivo. Anche all’indomani dell’ammonimento di Tajani, è rimasto fermo sulle proprie posizioni: “Le riunioni, gli incontri e i confronti – ha detto a Repubblica – sono stati chiesti non solo da me ma anche da parlamentari nazionali siciliani e regionali da mesi a tutti i livelli e a tutti coloro che ne erano titolati. Nessuno ha mai risposto. Così come nessuno ha mai convocato un congresso regionale o discusso la possibilità di farlo, tanto che il partito è retto da un anno e mezzo da un commissario”. E ancora: “Non intendo rinunciare a esprimere le mie idee, anche critiche, riguardo alla situazione di Forza Italia in Sicilia dove in tutti questi mesi, ripeto, sono mancate le occasioni di confronto interne al partito e anche sulla situazione della giunta e dei nostri alleati”.
C’è chi prova a ragionare sui concetti sacri della politica, come quello della partecipazione; e chi resta sigillato nel palazzo, in attesa di mettere a punto la prossima riforma (che sarebbe anche la prima). C’è chi individua modalità per ricreare interesse verso la politica (dopo un risultato elettorale talmente abbagliante da apparire ‘drogato’) e chi invece lavora nel segreto dell’urna, aspettando la prima occasione buona – col voto segreto – per azzannare Schifani e la sua gestione. C’è un tempo per tutto, ma ciò che manca, al momento, è la volontà di rimettere al posto le cose.
Persino Tamajo – guai a credere di poter succedere a un presidente 72enne, fra tre anni – è costretto a utilizzare le interviste per prostrarsi ai piedi del re e invocare il perdono. Ma il peccato dell’audio innocente consegnato ad alcuni fedelissimi – dovrebbero saperlo le vittime dei rancori del presidente – è quasi impossibile da cancellare. Questa vicenda è l’emblema di un partito-caserma che non conosce alcun ricambio della classe dirigente, né offre segnali d’apertura nei confronti dei giovani. L’esempio è arrivato proprio da Bellaria, dove ai giovani, veri protagonisti della festa, è stato concesso a mala pena di applaudire.