Professore, avvocato, avvocaticchio, attaccabrighe, delatore. Sono le tante facce del Bullo, di quell’opaco personaggio che vive e traccheggia all’ombra di Palazzo d’Orleans, protetto e stipendiato da Renato Schifani, per nostra sventura capo della Regione feudale di Sicilia. Non gli è bastata la campagna di odio imbastita, con i mezzi più balordi e infamanti, contro il giudice che lo ha condannato a versare 621 mila euro di tasse non pagate all’Agenzia delle Entrate. L’altro ieri s’è saputo che, con una avventata delazione, ha cercato di colpire un altro suo storico nemico: Gianfranco Micciché. Da vecchio azzeccagarbugli, adotta una tecnica particolare. S’inventa accuse campate in aria che impegnano per parecchio tempo le procure ma che non approdano mai a nulla. Tuttavia non desiste. Anzi. Ogni volta parte a testa bassa. Va per sputtanare e rimane sputtanato.
Proprio perché vanta un lungo e malvissuto passato da azzeccagarbugli – è partito a testa bassa anche contro l’Amat ed è rimasto scornato – il nostro amatissimo Bullo, callido e impenitente, non presenta mai una denuncia direttamente all’autorità giudiziaria. Sa bene che, nel momento in cui viene accertata la falsità dell’accusa, lui finirebbe incriminato per calunnia. Gioca di carambola. Contro il giudice che lo ha condannato per evasione fiscale ha presentato un esposto al Consiglio superiore della magistratura contabile. Certo del fatto che poi gli eccellentissimi e coraggiosissimi membri del Consiglio superiore, pur assolvendo in maniera limpida e assoluta il giudice messo avventatamente sotto accusa, avrebbero comunque inviato le carte alla procura di Palermo “per il di più a praticarsi”. E così è stato. Ma l’ufficio del pubblico ministero non è cascato nella trappola: ha impiegato il tempo necessario per l’istruttoria, ha interrogato tutti i testimoni e dopo un’indagine accuratissima e minuziosa ha chiesto l’archiviazione al Gip che puntualmente ha sottoscritto la liberatoria. La sentenza sull’evasione resta intatta. Sarà la Cassazione a stabilire se il procedimento si è svolto secondo le garanzie previste dallo stato di diritto.
Il Bullo, arrogante e recidivo, ha applicato il trucco della carambola anche alla sua intemerata contro Miccichè, colpevole di averlo definito in Assemblea regionale “impresentabile”. Ha messo in piedi una sceneggiata con Marco Falcone, ben sapendo che lui e Falcone – sotto inchiesta dalla procura di Catania per una assunzione alla Regione non proprio in regola – avevano il telefono sotto controllo. E, seguendo il canale delle intercettazioni, ha indirettamente comunicato all’autorità una montagna di nefandezze, come il voto di scambio mafioso, attribuite all’ex segretario regionale di Forza Italia. Le procure non potevano ignorare quelle infamità. E, ovviamente, hanno messo sotto controllo per oltre un anno anche il telefono di Micciché. Il quale ha potuto dimostrare di non avere avuto mai rapporti con boss mafiosi, ma come ex presidente dell’Ars è finito comunque appeso all’albero della gogna per via del gatto trasportato dal veterinario con l’auto blu.
E’ un bullismo giudiziario quello di questo opaco personaggio del sottobosco politico siciliano. Lui è convinto – forse perché pensa allo straordinario ed esorbitante potere della moglie dentro il ministero di Giustizia – di avere un particolare ascendente sui magistrati di ogni ordine e grado, procure comprese. Invece ne esce quasi sempre con le ossa rotte. Scornato e sputtanato.