Chi me lo doveva dire – ero un ragazzino di dieci anni, nato e cresciuto su un pizzo di montagna tra i Nebrodi e le Madonie – che alla fine dell’estate mio padre mi avrebbe portato a conoscere il mare? A quel tempo, nella profonda Sicilia dimenticata da Dio e dagli uomini, succedevano cose che molti anni dopo – muchos anos despues – avrei letto in un libro che arrivava dal Sud del Mondo e che aveva come titolo Cento anni di solitudine. Anche lì c’era un eroe, Aureliano Buendia, che un giorno “si sarebbe ricordato di quando il padre lo portò a conoscere il ghiaccio”. Ma il luogo geometrico del mio incanto non si chiamava Macondo, come nel romanzo di Garcia Marquez. Era Pedara, un paesino di pietra nera aggrappato alle pendici dell’Etna, circondato da vigne e boschi di castagne, sempre sul punto di tremare un po’ per le eruzioni del vulcano.
Per raggiungere il seminario che i padri salesiani avevano impiantato lì all’inizio del secolo, e al quale io – per una scelta del parroco e di mio padre – ero destinato, noi di Gangi avremmo dovuto intraprendere un viaggio lungo più di centocinquanta chilometri. Con una sosta forzata di due ore a Catania. Da dove un’altra corriera si sarebbe poi arrampicata lungo la strada per Nicolosi e i Monti Rossi, fino a Pedara. E fu lì, a Catania, che mio padre mi prese per mano, mi fece scavalcare gli scogli di via Dusmet, e mi fece bagnare la mano con l’acqua del mare. “Guarda quanto è grande”, si limitò a dire con poche ma sentite parole. Col sole che ci abbagliava e ci costringeva a socchiudere gli occhi. Era il settembre del 1956.
Il giorno che partii per Pedara, parenti e amici mi tributarono l’onore di una prima e indimenticabile processione. La corriera per Catania sarebbe passata alle nove e mezza ma alle sette sotto casa c’era già mio nonno con le redini del mulo in mano: credeva, poveretto, che avrei portato con me chissà quante valige e voleva rendersi utile al trasporto. Sul pianerottolo di casa, mia madre piangeva lacrime sincere perché sapeva che mi avrebbe rivisto dopo otto mesi, ma quando le buttai le braccia al collo per il saluto definitivo mi rispose con un sorriso fatto per metà di pena e metà di consolazione. Mio padre invece mostrava fierezza: pregustava già il piacere del figlio prete e se, per pagare la retta del collegio c’era da fare qualche sacrificio lui non si sarebbe mai tirato indietro. “Mi levo anche il pane dalla bocca”, diceva. E così dicendo mostrava le mani grandi e raspose, incordate da vene gonfie e bluastre: mani callose di chi, per una vita aveva lavorato corda e cuoio per costruire quelle selle per la soma che noi chiamavamo vardeddi e che il maestro della scuola elementare mi aveva insegnato a chiamare basti.
Alla processione che stava per muovere verso la fermata dall’autobus non poteva mancare il parroco, don Carmelo: era stato lui a scrivere la lettera di presentazione al rettore dei salesiani, specificando che nel mio cuore “albergava una sincera vocazione al sacerdozio”. E quando il corteo, chiamiamolo così, stava già per muovere, sentimmo pure il tacco secco della zia Vincenzina, sorella di mio nonno, che correva trafelata sul selciato sbandierando una busta gialla. C’erano mille lire. “Questo non è un regalo”, mi disse stirando per benino la banconota. “E’ solo un anticipo: nel giorno in cui tu diventerai sacerdote e io non ci sarò più, dirai una messa per la mia anima”. Quelle parole, per mio padre, erano invece l’anticipo della consacrazione: mi guardava con riverenza, come se mi vedesse già ai piedi dell’altare maggiore con il turibolo in mano. E quando salì sull’autobus che ci avrebbe portato a Catania – e da lì a Pedara – ringraziò il codazzo con un respiro profondo: era come se tutte le grazie del mondo facessero corona alla sua felicità; era come se respirasse un inebriante profumo di incenso. Mostrò un segno di commozione solo nel tardo pomeriggio di quel giorno fatidico. Quando, dopo la scoperta del mare, varcammo la soglia austera dell’istituto e mi consegnò nelle mani di don Mizzi, un confratello di origine maltese, incaricato di accogliere noi ragazzi “eletti dal Signore”, di controllare che la prima retta fosse stata pagata e di frenare ogni piagnucolosa resistenza dei genitori. “La vocazione di suo figlio è un dono fatto da Gesù a tutta la vostra famiglia”, disse con un tono gentile ma perentorio. Quindi mi impose di salutare papà e mi accompagnò alla camerata del terzo piano, quella destinata agli studenti di prima, seconda e terza media; ché quelli di quarto e quinto ginnasio, prossimi alla vestizione e al noviziato, albergavano nella camerata del secondo piano, affidata invece alla protezione di Maria Ausiliatrice, auxilium peccatorum e “baluardo contro ogni tentazione”.
Pedara era per me il nuovo mondo. Già il colore delle case era diverso. Erano costruite con pietra lavica. E poi c’era il collegio che era un palazzo con i tetti alti e i colonnati e tanti saloni e tante stanze e tanti bagni; e tre refettori per colazione, pranzo e cena; e pure una cappella grande, con tre navate e tre altari. Altro che le case di Gangi, il paesello delle Madonie dal quale eravamo partiti la mattina e dove papà sarebbe tornato da solo, senza di me.
Lungo la camerata, alla quale mi aveva assegnato don Mizzi, si snodavano due file frontali di letti, ciascuno con un comodino e un armadietto. Prima di coricarci ci si lavava faccia e piedi, e dopo la preghiera di ringraziamento ci si addormentava con lo sguardo fisso al chierico – il nostro si chiamava don Antonio Scucces – che, per meglio vegliare sul nostro sonno, andava su e giù fino a tarda notte, recitando il rosario. Ci diceva di essere “non un carceriere ma l’occhio del Signore”, e che sarebbe andato a letto solo dopo essersi sincerato che ciascuno di noi dormisse “abbracciato al proprio angelo custode e non al demonio”.
Sapevano bene, i chierici e gli altri padri salesiani, che la gran parte di noi veniva dai paesi e dalle campagne; sapevano che venivamo dalla cultura contadina, che eravamo poveri e che, a parte la vocazione, eravamo finiti lì, sotto “il cielo quadrato” del collegio, per studiare: a quel tempo le scuole superiori si trovano solo nelle grandi città e mantenersi agli studi costava un occhio della testa e mio padre, con le sue vardeddi, adornate con fiori di lana, non ce l’avrebbe mai fatta. Ma don Scucces riusciva a non farci pesare le nostre origini. Ci diceva che Dio amava anche i cristiani che mangiavano con le mani o si mettevano le dita nel naso, però i ministri del Signore, quali noi saremmo diventati, trasformano il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Gesù, ed è per questo mistero così grande – spiegava – che non dobbiamo consentirci una distrazione o una volgarità.
Per noi di Gangi passare dalle elementari alle scuole “superiori” era già un privilegio. E Pedara era la nostra terra promessa. Da lì ciascuno dei cinquantasette ragazzini, accolti da don Mizzi e accompagnati alla camerata del terzo piano, avrebbe scritto la sua epopea. Un’epopea della miseria, certo. Ma pur sempre un’avventura che ci avrebbe tenuto lontani da quella maledetta zappa; e pure dagli aratri, dai muli, dalle stalle, dai pascoli, dall’arido sole, dalle trazzere, dall’odore di stallatico, dal nerofumo delle forge e – perché no – dal dolciastro profumo di sapone e pietra allume che impregnava le sale da barba presenti ai quattro canti del paese. “Qui si vive in pieno seicento, col barocchismo, le raffinatezze e l’ignoranza di allora”, scriveva il 24 giugno del 1860 Ippolito Nievo alla madre Adele Marin dopo un viaggio tra i Nebrodi e le Madonie, tra la Val di Noto e l’Alcantara, fino alla Piana di Catania. E noi, nel tentativo titanico e picaresco di rovesciare il giudizio di Nievo eravamo anche disposti ad accettare i rigori della “regola” scritta da don Bosco per formare i giovani volenterosi e all’un tempo redimere quelli smarriti, disagiati, perduti
Il santo fondatore dei salesiani pretendeva, tra l’altro, che un aspirante arrivasse al sacerdozio dopo avere superato diverse prove. Intanto, dopo il quinto ginnasio, c’era il colloquio con il vicario del vescovo, chiamato a verificare se dietro la vocazione c’erano ombre e perplessità. Poi c’era la vestizione con l’abito talare, la tonsura e il noviziato che spezzava il corso degli studi e che per un anno intero ci consegnava alla preghiera e alla meditazione. Poi, dopo i tre anni di liceo, si diventava a tutti gli effetti chierici e, dopo altri quatto anni di facoltà teologica, ecco finalmente l’olio santo dell’ordinazione.
Tutti i professori che ci seguivano negli studi erano sacerdoti. Ma non si limitavano mai all’ordinaria lezioncina. Don Ruta, insegnante di francese, la mattina officiava la messa e poi, a scuola, ci parlava di Voltaire e dell’educazione sentimentale. Ci spezzettava i racconti di Balzac, ci strappava la promessa che da grandi avremmo anche letto Stendhal e Flaubert, e ogni tanto si spingeva persino ai confini di Proust che lui doveva amare tantissimo. Al punto che nei suoi occhi, un po’ miopi, la luce – proustianamente – “fluttuava come un fiore d’acqua”. E c’era pure don Greek, maltese come don Mizzi, che ci insegnava l’inglese e ci leggeva Shakespeare con le movenze di un Amleto abbagliato dalle luci del palcoscenico, oppure ci recitava Wordsworth, il tenero Wordsworth, con la leggiadria di un romantico macerato da un amore proibito: “Fair daffodils, we weep to see you haste away so soon”. Oppure Byron che provava “the suspension of disgust” davanti alle fonti di Clitumno.
E c’era soprattutto don Frattallone che per avvicinarci ogni giorno di più a Dio, ci trascinava in quel “teatro dell’infinito” che è la musica. Un teatro miracoloso. Perché noi ragazzini con i piedi incretati, oltre a quelli che ci insegnavano il latino, la storia, l’italiano e persino le buone maniere, avevamo la fortuna di dialogare ogni giorno con un giovane prete, venuto anche lui da quelle terre derelitte, che ci artigliava come un’aquila e ci portava su, nei cieli sconosciuti delle note e delle tonalità, delle armonie e delle dissonanze. Ci costringeva ad ascoltare i classici e ogni due per tre bloccava il disco per spiegarci gli accordi. Ma se qualcuno di noi mostrava indifferenza o, peggio, noia allora dava in escandescenze con un’isteria, dolce e infantile, che lo spingeva ad abbracciare, chiamiamoli così, gli infedeli: quelli che non volevano saperne né di Mozart né di Beethoven, e che non volevano più sentire parlare né del sol maggiore “limpido e cristallino come una foglia argentata” né del do maggiore del “fiat lux” con il quale Haydn, nella creazione, “accompagnò la nascita della luce e dell’universo”. A me voleva un mondo di bene: viveva anche lui Pedara come il nuovo mondo e non a caso un giorno volle che ascoltassimo, noi due da soli, il tema centrale della nona sinfonia di Antonin Dvorak, quella “dal nuovo mondo”, appunto. Forse, povero don Frattallone, non meritava il colpo al cuore che, nell’ottobre successivo, gli avrei inferto.
Poco prima che cominciasse il quinto anno, quello destinato a sfociare nella vestizione e nel noviziato, ero tornato a Gangi per trascorrere con mio padre e mia madre i quindici giorni di vacanza previsti dalla “regola”. Ma al momento di ripartire per Pedara, sono andato a trovare per un doveroso saluto il barbiere Lapunzina, vecchio vicino di casa, che nel frattempo aveva tirato su – oddio, che meraviglia – la figlia Fiorina, mia compagna di scuola alle elementari. La ragazzina mi guardò incuriosita, poi si lanciò in un abbraccio e persino in un bacio. “Pensami durante le tue preghiere”, mi disse con la malizia della sua età.
Sarà stata colpa del demonio, sarà stata colpa di quel bacio, sta di fatto che arrivai all’inizio del quinto anno con un chiodo fisso: che era un pensiero soave, ma al tempo stesso un’afflizione.
Don Puleo, padre confessore, mi chiedeva come sempre se ero distratto da una qualche amicizia particolare: “melanconie”, le chiamava Santa Tersa d’Avila. E io rispondevo onestamente di no. Don Greek notò che ero distratto e ne parlò con don Ruta che, a sua volta, ne accennò al rettore. Il quale mi convocò e mi chiese di anticipargli la risposta che da lì a poco avrei dato al vicario del vescovo. La mia vocazione era ancora forte o si era, per così dire, appannata?
Non ho saputo rispondere. Volevo solo scappare da Pedara e tornare di corsa al paese e poi fare le scale a quattro a quattro per raggiungere la casa del barbiere Lapunzina. Restava solo un però. Con quale coraggio potevo presentarmi al cospetto di mio padre e comunicargli che non avrebbe potuto più assaporare il piacere del figlio prete? Sarà stato il diavolo sta di fatto che dopo due giorni lo vidi comparire nel parlatorio: era venuto a Catania per comprare corda e cuoio per le sue vardeddi e, già che c’era, aveva allungato il passo di sei chilometri fino a Pedara per un saluto al figlio seminarista per giunta prossimo alla vestizione. Lo fulminai con una domanda. “Pa’, ma i preti si maritano?”. Lo sfortunato capì. E raggelò. Mi invitò a fare la valigia, passò dall’economato per pagare la retta residua, mi prese sottobraccio e mi riportò a casa.
Pedara aveva cambiato la mia vita. Mi aveva fatto conoscere il mare e ben altri orizzonti. Ma mio padre per sei giorni fece finta di non capirlo. Al settimo giorno, per spezzare il muro del suo risentimento, gli dissi che avrei continuato a studiare da solo e che avrei cominciato presto a lavorare anche per restituire le mille lire alla zia Vincenzina. “E’ morta due mesi fa”, mi comunicò. “Requiem aeternam”.