Dimenticate la Sicilia dei giardini e dei capricci barocchi, delle delizie arabe e delle meraviglie normanne, la terra che i grandi viaggiatori ammiravano con occhi lucidi e insaziabili. Dimenticate la Sicilia felicissima alla quale Ibn Hamdis non aveva voluto strappare per ricordo neanche un fiore di gelsomino. “Vuote le mani ma pieni gli occhi del ricordo di lei”, si limitò a scrivere nel suo diario lo sventurato poeta costretto dai nuovi invasori a tornarsene nella sua Arabia infelice. Quella Sicilia è stata divorata dal sole e dalla siccità. E’ diventata una provincia del Sahara. Pensate che il Simeto, il fiume che nasceva dalle Madonie e arrivava fino al Golfo di Catania, non sfocia più a mare. La poca acqua che ancora sgorga dalle sorgenti se la rubano nottetempo dalle anse gli agricoltori che cercano con ogni mezzo di fermare la morte degli aranceti e l’avanzata del deserto. Dimenticate anche i miti che hanno trasformato quest’Isola in una delizia degli dei. Il lago naturale di Pergusa che duemila anni fa incantava Ovidio, è ridotto a una pozzanghera: non c’è più l’acqua che faceva scrivere al poeta romano “qui mai non verna, qui ride il suol di primavera eterna”. Povera Sicilia. La grande favola creata da Giove e Plutone, da Cecere e Proserpina, si è rinsecchita e spenta; ferita a morte dall’indifferenza e da una classe politica che non insegue più né i miti né l’incanto, ma fa i conti ogni giorno con la propria impotenza.
Prendete il lago di Pergusa: è un sito di interesse comunitario – così ha deciso l’Unione Europea – di cui non importa più a nessuno. Almeno fino a un paio di settimane fa, quando sulle sue sponde, dove per il mito sono nate le quattro stagioni, una delegazione del Partito Democratico ha celebrato i funerali dell’unico lago naturale senza immissari né emissari. La persistente siccità che ha colpito l’Isola nell’ultimo anno – le scorte d’acqua si sono assottigliate del 45 per cento rispetto a giugno ’23 – ha finito per prosciugarlo, riducendolo a una chiazza nerastra di fango umido. Povero Ovidio.
Sembra che a Pergusa regni un vulnus, reso plastico dalla “totale disattenzione e dall’inerzia degli enti che sarebbero dovuti intervenire a vario titolo”, secondo Legambiente: se n’è disinteressata la Regione Siciliana, che nel ’95 aveva istituito la Riserva Naturale Speciale, utile alla sua salvaguardia, ma senza un direttore né operatori né fondi assegnati; non può far nulla il Libero Consorzio di Enna, cioè l’ex provincia, le cui competenze e i cui mezzi sono limitati rispetto alla portata del problema, ormai atavico; l’Europa è troppo lontana e anche Cerere, la dea romana della fertilità, pare abbia smesso di rivolgere le sue attenzioni verso questo pezzo di Sicilia, scosceso e dimenticato da tutti. Era la sua opera incessante a garantire le messi e l’abbondanza. L’assenza d’acqua conferma il declino del mito, anche se non basta per cancellarne il ricordo e l’ambizione.
Da queste parti, come rivela lo storico greco Diodoro Siculo, peraltro nativo di Agira (un comune in provincia di Enna, a 50 chilometri da Pergusa), sorge la spelonca su cui si apre il regno di Ade, Plutone per i romani. Fu il dio degli Inferi, nel racconto dei classici, a riemergere da laggiù e, affascinato dalla sua bellezza, a rapire Proserpina, che stava raccogliendo i fiori sulle sponde del lago dalle acque salmastre. Cancellando – una volta per tutte? – l’armonia di quel luogo incantato e ombroso, dove, per dirla con Ovidio, “un grande bosco corona le acque da tutti i lati, e con le sue fronde fa velo al fuoco del sole. I rami danno fresco, la terra umida produce fiori”. Il rapimento della figlia costrinse Cerere a una ricerca vorticosa, allontanandola dai suoi doveri. Così Giove, preoccupato dalla carestia, al decimo giorno si convinse a riunirla con la madre, ma solo per metà dell’anno: nacquero l’estate e la primavera. In quel periodo i campi e i prati rifiorivano e gli umori si rallegravano.
Oggi l’estate ha cambiato connotati e in Sicilia, più che garantire l’abbondanza, accentua le criticità. Almeno una volta l’anno, in prossimità della stagione calda, gli ambientalisti annusavano il rischio e rilanciavano il messaggio: “Il Lago di Pergusa sta per sparire”. Solo che stavolta è successo sul serio. Servirebbe Giove, o tutt’al più Cerere, per porre rimedio all’ennesima beffa della natura: ma in Sicilia si ritrovano Schifani, nelle vesti di governatore, e Musumeci, ministro della Protezione Civile, che di fronte agli enormi problemi causati dalla carenza idrica, ha risposto alle richieste della Regione (circa 700 milioni d’interventi) con la dichiarazione dello Stato d’emergenza e una prima tranche di aiuti da venti milioni che si fatica a liquidare. E’ notizia di questi giorni che i 24 soggetti attuatori del Piano – Comuni, Assemblee territoriali idriche, Consorzi di bonifica – abbiano presentato una parte dei progetti richiesti per l’attivazione dei finanziamenti. Il resto è finito nel gorgo della burocrazia: sono indietro sulle pratiche e a corto di personale, le solite tristi storie.
L’Isola è arsa, ogni anno 117 km quadrati di suolo cedono spazio all’avanzata del deserto, ma nessuno ha fatto e fa abbastanza per tirarla fuori dalla morsa. Tra siccità e incendi, sembra davvero il regno degli inferi. Le riserve idriche si sono depauperate: mancano manutenzione e strategia, non di certo i detriti che hanno limitato l’utilizzo delle poche risorse a disposizione. Si calcola che dei 29 invasi censiti dalle autorità, 26 hanno fatto registrare una flessione, in termini di approvvigionamento, rispetto al mese di maggio. E a giugno, secondo il Servizio informativo agrometereologico siciliano, le piogge “non hanno fornito apporti significativi, limitandosi a pochi eventi con benefici quasi nulli per l’agricoltura, dal momento che quasi ovunque l’acqua ha potuto bagnare solo lo strato superficiale dei suoli, dal quale è velocemente evaporata”.
Non piove e non si trovano soluzioni a breve e medio termine per garantire una ripresa delle attività economiche devastate: come agricoltura e zootecnica. La corona di capre riunite intorno al fango, per cercare un sorso d’acqua e di normalità è l’istantanea (virale) di questi mesi e riduce in frantumi persino i versi di Umberto Saba: “Ho parlato a una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata alla pioggia, belava”, scriveva il poeta triestino un secolo e passa fa. Gli unici rattoppi, ad oggi, li ha individuati la Protezione civile regionale, ma ispirano quasi tenerezza: trattasi di un contributo da 1,5 milioni di euro per la riparazione di 98 autobotti in dotazione ai Comuni e per acquistarne dieci già usate (e una nuova). L’Accordo di Coesione confezionato da Schifani e dalla premier Meloni, esibito al Teatro Massimo di Palermo durante la campagna elettorale per le Europee, prevede invece un investimento da 90 milioni per la riattivazione di tre dissalatori: a Trapani, Gela e Porto Empedocle. Nei pressi della città che ha dato i natali ad Andrea Camilleri, c’è Agrigento, Capitale della Cultura 2025, anch’essa a secco. Da settimane è in corso un piano di razionamento idrico, e neppure le strutture ricettive possono garantire ai turisti un soggiorno “normale”. Da qui la decisione del Prefetto di requisire alcune reti idriche per “evitare pericoli di ordine pubblico” e affidarle al gestore unico del servizio per una efficace distribuzione secondo i criteri di priorità stabiliti.
Da ovunque lo si osservi, è un fenomeno che si fatica a interpretare con le lenti di oggi, deformate dal consumismo sfrenato. Alla Sicilia non bastava lo spopolamento demografico – si perdono decine di migliaia di residenti ogni anno – ci mancava pure la desertificazione. Pergusa, che ha ottenuto il riconoscimento di Riserva Naturale Speciale, è un’area nevralgica per i flussi migratori e la nidificazione e lo svernamento di numerose specie faunistiche. Il ciclo di vita del lago, in mancanza di emissari, è regolato dalle piogge (che mancano) e dall’evaporazione estiva. Già alla fine degli anni ’90 ha vissuto una crisi poderosa, a cui si è posto rimedio regolando l’affluenza idrica mediante l’utilizzo di una condotta che permetteva di attingere a una diga nelle vicinanze. Oggi non avviene. Con tutte le conseguenze del caso. “Lo avevamo predetto, entro luglio il lago Pergusa sarebbe scomparso e la scomparsa è giunta prima, con il solstizio d’estate – dice Giuseppe Maria Amato, referente della Gestione delle Risorse idriche di Legambiente Sicilia – Abbiamo chiesto per anni il ripristino del sistema di monitoraggio ambientale, fondamentale per aggiornare le conoscenze sullo stato del lago, e la pulizia dei diversi canali che dal bacino naturale del lago portano l’acqua verso lo stesso”.
Non rimane più nulla del pigmento rosso, quasi violaceo, di cui si tingevano le acque per la comparsa di alcuni solfobatteri impegnati a restituire vita al bacino. Un fenomeno sbalorditivo (anche per Aristotele) che ha richiesto studi e scoperte, e provocato meravigliose suggestioni: ad esempio che si trattasse di una punizione divina, come accadde nel Nilo ai tempi di Mosè, quand’era stato Aronne, percuotendo le acque con un bastone, a stravolgerne la colorazione. Nulla è rimasto “del lago vicino alle mura di Enna, profondo, che si chiama Pergo, e neppure il Caistro (un fiume della Lidia che si tuffa nel Mar Egeo, ndr) ascolta sulle sue onde più canti di cigni” (Ovidio). Dal ratto di Proserpina al ratto del lago è un attimo: sono trascorsi 11 mila anni di discreta sopravvivenza e di naturale bellezza, segnati da qualche colpo basso – non solo Ade, ma anche la costruzione di un autodromo, duro colpo per l’intero ecosistema – e un finale inglorioso.
Non è l’unico in sofferenza il lago di Pergusa, anche se il più noto. Pure il lago Rubino, nel Trapanese, ha dimezzato la sua portata rispetto al 2023, e le immagini che lo mostrano dall’alto, attraverso un drone, non bastano a restituire lo sconcerto; mentre il fiume Simeto, che per la sua ampiezza è il principale dell’Isola, non arriva più al mare. La terribile scoperta è un giallo degno di Montalbano: da un lato i capricci e i tormenti della natura, dall’altro un business dell’illecito. Lungo il corso del fiume, infatti, alcuni soggetti, attraverso l’utilizzo di pompe non autorizzate, sottraggono ingenti metri cubi d’acqua destinati agli agricoltori in regola, per rivenderla al mercato nero dei padroncini delle autobotti. Sciacalli che si fiondano sulle emergenze per trarne profitto. E’ il nuovo pizzo dell’acqua: o ti adegui o rimani senza.
Lungo il tracciato del fiume, che alimenta la piana di Catania, è possibile osservare dei tratti di terra nudi, come in prossimità dell’Oasi di Ponte Barca, in territorio di Paternò. La mancanza di acqua incide sui raccolti, specie sugli agrumi, che durante questi mesi ne esigerebbero in abbondanza. Ma anche i campi di grano – la Sicilia assieme alla Puglia fornisce la metà del fabbisogno nazionale di frumento – sono stati decimati dall’assenza di precipitazioni: uno su cinque è scomparso e le feste della mietitura sparse per l’Isola sono soltanto il presagio di un altro funerale. Il riflesso di questa crisi, sempre più grave, proietterà le proprie conseguenze sui mesi della raccolta. La Confederazione Italiana Agricoltori della Sicilia orientale rileva che “i danni per il comparto agricolo nell’Isola ammontano a un miliardo di euro”. Da queste parti Cerere e la figlia Proserpina non hanno mai buttato lo sguardo. Si sono arrese.
La Sicilia non è abbandonata soltanto dagli dei, ma è fortemente segnata dall’atarassia dei suoi governanti, costretti a inseguire le emergenze senza neppure riuscire a tamponarle. Schiavi, essi stessi, dell’ignavia di chi li ha preceduti. Mancano strategie e investimenti, e (forse) consapevolezza di quel che sarebbe potuto accadere. Ed è così per tutto: dalla siccità agli incendi ai rifiuti, che nelle ultime settimane hanno tenuto in ostaggio quasi duecento comuni (su 391 complessivi), incerti su dove conferirli. Una terra illuminata dal mito e dai suoi grandi cantori, e distrutta dalla realtà che è riuscita a farsi spazio sgomitando; ignara del sentimento di poeti e letterati, che l’hanno amata a dismisura fino a farla odiare a molti siciliani per le sue croniche manchevolezze.
La siccità diventa, così, la metafora impietosa di una classe di governo che balbetta, che non sa prevenire né curare; che abdica al sogno per tappare le falle dell’emergenza; che alla visione del futuro preferisce la precarietà del presente, vissuta come l’unica modalità di autoconservazione (del potere); e che ormai non riesce a specchiarsi neppure nel passato, quello più ammaliante e degno di stupore, di fronte al quale rischia di sprofondare per la vergogna. Il malessere prevalente della Sicilia non è l’assenza di piogge ma l’inerzia. Cosa poteva saperne Ovidio.