Era mio padre. Il libro che l’architetto Iano Monaco ha dedicato al padre non è solo un atto d’amore e un omaggio di devozione. E’ anche e soprattutto una fiaccola accesa per tenere viva la figura di un grande latinista, di un immenso cultore del teatro e di un uomo che aveva una libertà in più rispetto a tutti gli insegnanti e tutti gli studiosi del dramma antico: la libertà dell’ironia, della leggerezza, della levità. Era un gran signore, Giusto Monaco. E non è un caso che il libro assuma come titolo una frase – “A me il fiato mi serve” – che il professore usava spesso con i suoi allievi per spingerli ad apprezzare la fatica della parola, del ragionamento, del confronto. Come la parola che sovrasta le prime pagine del libro e che rappresenta una epigrafe dentro la quale lo stesso professore Monaco ha voluto racchiudere il senso della propria vita: “Educato, educai; percorsi l’involucro del mondo. Mi ricopre l’amica terra. Fui per tutti Giusto e amato, di Siracusa, in Sicilia”. L’epigrafe ricalca, va da sé, una iscrizione funebre del terzo secolo dopo Cristo, composta da un anonimo per Fileto – in italiano “amato” – di Limira, in Licia.
Non ci si poteva aspettare altro da uno studioso che aveva trascorso, prima da professore di liceo e poi da docente alla Facoltà di Lettere e Filosofia, una vita sui classici latini, su ogni squarcio di vita romana, su ogni impresa dei consoli e degli imperatori, su ogni racconto di Tacito e Sallustio, su ogni poema di Virgilio, su ogni ode di Orazio, su ogni verso di Catullo, su ogni immagine di Ovidio. “Nihil visere possis Roma maius”. Monaco incarnava la cultura del latino. E chi lo ebbe come maestro ricorda, oltre al fascino e all’incanto delle sue lezioni, quel tratto di generosità che riusciva a trasmettere a ogni suo alunno; anche a quelli meno preparati, che magari arrancavano in grammatica ma che comunque non venivano mai lasciati indietro.
Il libro però va oltre le lezioni e ben oltre i classici. Raccoglie gli articoli scritti da Giusto Monaco e pubblicati dal Giornale di Sicilia tra gli anni ’70 e il 1994, data della sua morte. Da filologo classico e da rifondatore e guida, per lunghi anni, dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, il professore riusciva a rischiarare con la luce del passato eventi e problemi della vita di tutti i giorni. Il teatro, come struttura architettonica e come rappresentazione sociale e culturale di una comunità, era per lui la chiave più idonea per scandagliare una metropoli difficile come Palermo, per sviscerare le sue ambiguità e le sue contraddizioni, per entrare in contatto con la bellezza e con la storia complicata di una città “regia e conventuale”, per dirla con Giuseppe Tomasi di Lampedusa. “Quello in cui ci è dato vivere non è il migliore dei mondi possibili”, annotava Giusto Monaco, “ma è l’unico che abbiamo”. Avvertiva quindi come un dovere morale impegnarsi per migliorarlo nell’interesse della collettività.
Leggere “A me il fiato mi serve” è anche l’occasione per scoprire o riscoprire momenti fondamentali e indimenticabili del grande Teatro Greco. Sofocle, Euripide, Eschilo diventano compagni di viaggio nei percorsi più impervi, e anche dolorosi, di una Sicilia e di una Palermo che cercano una via di comprensione e di riscatto, di redenzione e di civiltà. Lontano dalla violenza, dalla malvagità e dalla miseria di un destino impietoso.
Giusto Monaco, in questo libro, non ci mostra solo lo splendore intramontabile dei classici. Ci insegna il valore della vita.